Autore: Avalon9
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life
Personaggi Principali: Aries Shion; Libra Dohko
Altri Personaggi: Atena, Saga e Aioros come guest star (anche se solo nominate)
Rating: Giallo
In proposito: “Siamo come gli aquiloni”. Lo diceva spesso, Shion, fra le colonne vecchie di Atene; nell’aria umida di Cina. Lo diceva spesso, quando gli anni vissuti erano ancora pochi. Quando Shion aveva diciotto anni, e Dohko conversava con lui. Una conversazione prima della morte di Shion. Alcune parole pensieri preoccupazioni scambiati davanti a un tavolino e agli angoli opposti del mondo. L'ultimo dialogo fra Shion di Aries e Dohko di Libra: il commiato.
Disclaimer: i personaggi sono di Masami Kurumada; la situazione invece la rivendico mia^^
Note: one shot; missin moments
Cose: Shion e Dohko sono straordinariamente difficili, da trattare. Me ne sono accorta solo scrivendo su di loro. O li si ringiovanisce troppo (anche se Dohko è un ragazzino) o li si invecchia troppo. Ho cercato di immaginare cosa possono aver provato in anni di separazione; cosa si aspettavano e cosa desiderassero.
E mi è nata, in contemporanea, la malsana idea che Shion sapesse che avrebbe dovuto morire; per mano di Saga. E che Dohko sapesse e non sapesse assieme (arrivando anche a sbagliare persona).
Sinceramente, non so esattamente cosa dovrebbe essere. Se ne sta un po’ per i fatti suoi e non è diventato proprio quello che avevo in mente all’inizio. Pazienza! Shion e Dohko sono alla loro prima apparizione reale nelle mie fila, e devono fare un po’ di rodaggio. Taaanto rodaggio.


                  AQUILONI


 

“Siamo come gli aquiloni”
Lo diceva spesso, Shion, fra le colonne vecchie di Atene; nell’aria umida di Cina. Lo diceva spesso, quando gli anni vissuti erano ancora pochi. Quando Shion aveva diciotto anni, e Dohko conversava con lui, sotto il sole caldo di Grecia; fra le foreste di bambù o nella neve accecante del Jamir.
“Siamo come gli aquiloni” ripeteva, e Dohko rideva al suo fianco. 

 

“Sei in ritardo.”
Dohko provò un senso di abitudine, mentre scivolava sotto l’architrave del tempio. Gli era mancato quel modo un po’ irritante un po’ puntiglioso che Shion aveva di riprendere tutti alla minima mancanza. Tutti e mai se stesso. Perchè a riprendere lui c’era stato Dohko, un tempo. Quando erano ragazzi vestiti d’oro e di cosmo; quando erano ragazzi e credevano che sarebbero morti.
“Non mi hai dato un orario.”
Shion sorrise sotto la maschera del sacerdote, rialzando il collo anziano. Sorrise, perchè Dohko non era cambiato, in quei due secoli. E si chiese come avesse potuto sopportare la distanza e i lunghi silenzi cui la Dea li ha costretti.
Anissa conosce si rispondeva, quando la malinconia lo coglieva, nelle notti greche che sanno di ginestra e rosmarino.
Anissa sa ripeteva, e lasciava il ricordo delle piane brulle del Jamir per le verdi risaie dello Jiangxi. Tornava alla cascata che riempiva la mente con il suo fragore; ai pomeriggi fra l’erba alta e il fruscio del changshan. C’era tornato tante volte nella memoria, Shion, a Goro-ho, in quei lunghi anni trascorsi sul trono di Grecia. E mentre lui ricostruiva e conservava, Dohko sedeva, le gambe intrecciate, davanti al mormorio della cascata.
Sarebbe stato semplice lasciar libero il cosmo e cercare. Cercare un contatto, una parola, anche un rimprovero. Sarebbe stato semplice, e Shion non ha mai amato le cose semplici. Lo sapevano entrambi: dovevano aspettare.
“Vieni.” I movimenti di Shion erano rigidi, stanchi per gli anni e vecchi ricordi. “Ho fatto preparare. Per due.”
E per un istante il passo malfermo si arrestò; e poi riprese, nel suo andamento un po’ claudicante. Che pensiero sciocco la mia premura notò Shion, mentre lo sguardo scivolava lungo i fianchi aprichi della collina, dalla mole della Tredicesima giù fino alle luci di Rodorio e ancora oltre, ai fuochi sulle mura difensive: il regno della Dea, il loro mondo segreto e inesistente.
“Ho preparato anch’io. Per due.”
Le labbra si piegarono in uno strano sorriso, mentre Dohko continuava a fissare l’acqua eterna della cascata, il suo precipitare. E nei riflessi notturni vedeva la terra di Grecia, risentiva nell’aria bagnata l’odore salino di un mare lontano. E c’era di nuovo il sole caldo sulla pelle nuda, c’era di nuovo il clangore dell’oro ad ogni passo. E c’era Shion, seduto accanto a lui, su gradini bianchi un po’ scrostati un po’ nuovi.
“L’uva di Grecia è dolce, corposa” commentò Shion sovrappensiero, riempiendo le coppe. “Non ti è mai piaciuta”
"A te, invece, il baijiu piaceva.”
Dohko rise e la sua immagine tremolò. E Shion si chiese che suono avesse la voce di Dohko, adesso che era un vecchio; e che aspetto avesse, il compagno di sempre. E si soffermò sui tratti indefiniti del suo viso, sul corpo che ricordava un ragazzo e si era presentato con il passo felpato e sornione di una tigre che stuzzica la preda. E si chiese cosa vedesse Dohko, seduto sotto la grande cascata, fra il vapore umido e le ombre di Cina. Si chiese che aspetto avesse lui, in quel momento: un vecchio o un ragazzo? Forse un bambino, come quando si erano conosciuti nella penombra della pagoda. O forse era l’ariete, fiero e maestoso, come Dohko contorceva in spire voluttuose la coda della tigre che era in quel momento.
Shion si chiese cosa vedesse e se davvero avesse importanza capirlo, in quel momento. E si rispose che, in fondo, poteva gustarsi quella compagnia a lungo aspettata, prima che tutto finisse. Alzò in un brindisi lento la kylix e bevve. La coppa di Dohko non si mosse, ma la mano scivolò alla tazzina e Dohko lo imitò, il baijiu che scorreva caldo nella gola.
“Hai ricostruito il tempio” commentò Dohko, stringendo gli occhi come per definire meglio le immagini tremolanti nell’acqua scura.
“L’ho ricostruito” convenne Shion. “Era il compito che Lei mi aveva affidato. Ma per me è com’era allora. Lo ricordi?”
“Sì.”
Com’era la voce di Dohko, si chiese di nuovo Shion. Era acuta, una volta; e poi era diventata più roca e profonda. Era diventata la voce di un ragazzo che rideva davanti alla paura; la voce di un ragazzo che aveva pianto accanto a lui, su un campo di morti e di rabbia.
Com’era la voce di Dohko, la voce di un vecchio seduto davanti ad una cascata? Shion avrebbe voluto sentirla; avrebbe voluto sapere se era cambiata ancora, forse più vecchia e stanca; forse più simile alla sua. La voce che sentiva, invece, non aveva età: l’espandersi di un suono nell’aria silenziosa di Grecia assieme al ricordo di umido e del tono che dovevi tenere sempre un po’ più alto, quando parlavi vicino alla cascata.
Si versò dell’altro vino dal cratere e indugiò sulle sagome sempre più scure nella notte: il giardino alle pendici della Collina delle Stelle era di nuovo rigoglioso e il profumo intenso di rosmarino e olive maturate al sole risaliva fino al piccolo tempio. Shion alzò lo sguardo: la statua di Atena si intravvedeva contro il cielo notturno, appena rischiarata dalle fiaccole accese sulla terrazza. Inclinò la testa, rilassando meglio le spalle, mentre Dohko al suo fianco tremolò, la luce divenne più intensa e poi si affievolì di nuovo.
“É passato molto tempo davvero” constatò Dohko, intrecciando le mani in grembo. In quei due secoli non aveva mai voluto accorgersi davvero dei cambiamenti avvenuti: la cascata continuava a scrosciare; le costellazioni si avvicendavano in cielo secondo le stagioni; a primavera il riso veniva piantato e il suo corpo si era solo racchiuse su se stesso, come una crisalide. Nella terra di Cina, fra le vette di Goro-ho, tutto era rimasto immobile; e in Grecia molto era mutato. Forse troppo. E le stelle demoniache, Dohko lo aveva percepito, avevano di nuovo iniziato a pulsare nella loro prigione di pietra.
“Molto tempo” sussurrò Shion, sfilandosi i pesanti paramenti sacerdotali cesellati d’oro. Non si era ancora abituato a vederli sulla propria persona e il loro peso, con il trascorrere degli anni, era diventato fisico oltre che spirituale. Ma Dohko non si sarebbe offeso; con Dohko poteva riassaporare quella libertà, recuperare quell’identità cui aveva rinunciato in un inchino davanti ad un cosmo che andava addormentandosi.
“C’erano i Turchi, quando te ne sei andato” ricordò Shion, in un pigro gioco di memoria. “E con loro i rapporti erano difficili, ma non impossibili. Era sufficiente dar loro l’illusione di comandare anche noi.”
La mano vago incerta fra le dolmades, ignorò le sardine affumicate e indugiò con calma studiata su una sarikopitakia. Shion assaporò il rustico di formaggio e miele, e per un istante ebbe l’impressione di avvertire il profumo di xiao-mai e involtini primavera caldi mescolarsi all’aria. Dohko, dall’altro lato del tavolo, ai piedi della cascata, aveva imitato i suoi movimenti.
“Poi ci sono stati i re tedeschi e danesi.” riprese Shion, la voce in un sussurro. “E i rapporti con Asgarðr e Blue Grado si sono intensificati. Speravo. Ma poi...”
Shion socchiuse gli occhi, riavvertendo il moto di inquietudine e delusione che aveva avvertito anni prima: i movimenti per l’indipendenza, il ritorno della monarchia e la guerra mondiale. I contatti con gli alleati del Nord si erano fatti sporadici e complicati, attraverso un’Europa violata e distrutta. Shion si osservò le mani, raggrinzite e callose: non aveva potuto fare nulla. Non c’erano cavalieri d’oro, all’inizi del secolo. L’ultima volta che aveva avvertito un cosmo d’oro brillare era stato nelle lande di Russia, ai tempi di Napoleone. Lo aveva perso giovane, quell’unico cavaliere d’oro e l’armatura del Sagittario aveva aspettato ancora, paziente, fino a pochi mesi prima.
Gli sembrò che il vino caldo gli restasse imprigionato in gola, assieme a un nodo di frustrazione e accettò quasi con sollievo l’abbraccio di cosmo che avvertì, discreto e caloroso, di Dohko. E, di nuovo, Shion si perse nell’illusione che fosse davvero lì con lui, seduto accanto al parapetto.
“Tre anni di guerra civile” riprese infine, seguendo un pensiero che non si voleva esaurire. “I governi anticomunisti e i colpi di stato, la dittatura militare. Hanno proibito Sofocle, Euripide, Eschilo, Aristofane lo sai? E anche la zeta.” Shion strinse forte il pugno e Dohko annuì grave, il dou li seguì il movimento a coprire gli occhi vivi sul viso rugoso.
“Oggi è intervenuto l’esercito, al Politecnico” aggiunse senza un vero motivo. E Dohko avvertì il significato nascosto dietro quelle parole, dietro quell’elenco di fatti storici in apparenza fine a se stesso. L’acqua di Cina continuava a scorrere, imperturbabile, ma qualcosa stava mutando, e, presto, anche la cascata avrebbe visto, forse, un nuovo dragone invertirne il flusso impetuoso, alzandosi al cielo. E la terra sacra del Santuario aveva già accolto fra le sue braccia antiche la Dea rinata.
Il baijiu in certi momenti è utile pensò Dohko, portando la tazzina alle labbra e osservando con apparente casualità l’alone violaceo con cui conversava. Shion non aveva volto, ma anche da quell’amalgama di luce informe si poteva avvertire la dignità e la stanchezza che emanava. Per due secoli si erano imposti di ignorarsi, ognuno dedito ad assolvere il compito che Lei aveva loro affidato nell’ultimo alito, attraverso il corpo sempre più freddo di una bambina.
Sasha.
Due secoli; e adesso tutto stava per ricominciare. E se Dohko avrebbe potuto scendere di nuovo in battaglia, grazie a quel segreto che custodiva, Shion sarebbe rimasto al fianco della dea bambina come Hakurei prima di lui, fermo e maestoso come l’Ariete. E forse. Forse questa volta, sarà diverso.
E la bambina che riposava al Tempio, i grandi occhi sfumati d’azzurro, avrebbe vissuto.
“Qui, però, non è cambiato nulla” constatò Dohko, e non seppe se ne fu sollevato o spaventato.
“Qualcosa è cambiato anche qui” lo corresse Shion con un sorriso assieme amaro e ironico. “Io sono invecchiato, e inizio ad essere stanco, amico mio.”
Per la prima volta in quella serata irreale, sospesa nel tempo e nello spazio, Dohko si concesse di soffermarsi sulla luminescenza che gli sedeva di fronte. C’era un misto di rassegnazione e accettazione nel cosmo di Shion, una quieta indulgenza in pensieri ed emozioni che, a tratti, vibravano quasi contrastanti, la traccia di una qualche decisione – o forse di una consapevolezza – soppesata a lungo, conquistata fra notti insonni sotto il cielo e nel silenzio di riflessioni e ricordi, nel peso di un ruolo accolto con un inchino.
Qualcosa è cambiato si ripeté Dohko, e il riflesso nella tazzina gli restituì un guizzo di pelle violacea vecchia e raggrinzita; le rughe profonde che solcavano il viso e la pelle gonfia sotto gli occhi, le guance cadenti ai lati di una bocca secca. Il baijiu tremolò nella mano ossuta, e Dohko sorrise di se stesso, di quel corpo che aveva accettato il trascorrere del tempo con indifferenza, raggrinzendo e mutando.
Cos’era rimasto, del cavaliere di Libra? Forse solo un pallido ricordo e un cappello di paglia grigio e strappato; forse solo ossa stanche e fragili che si muovevano lente con il sostegno di un bastone. Si lisciò i baffi in un gesto distratto: la memoria, a volte, è traditrice ed erano state troppe le cose che Dohko aveva visto nella sua lunga vita per poterle ricordare tutte.
Ai piedi della grande cascata, nel silenzio raccolto ed innaturale della prima notte, di fronte al baluginio di Shion com’era un tempo – come io voglio ricordare che fosse – Dohko avvertì per la prima volta il peso reale degli anni trascorsi, assieme ad un’intima malinconia.
Qualcosa è cambiato scandì lentamente nel pensiero, socchiudendo gli occhi. Nell’alone violaceo del cosmo di Shion scorgeva le sagome scure dei templi oltre il parapetto.
I templi. Restaurati.
Vuoti.
In attesa si corresse con un sospiro di cui si sorprese. E Shion taceva, il volto stanco e solcato da rughe appoggiato alla mano. Seguiva il medesimo pensiero di Dohko, la stessa malinconica ovvia e fastidiosa consapevolezza che stava prendendo forma concreta fra loro, nei loro pensieri.
I templi erano in attesa. E presto, molto presto, l’oro di nuovi cosmi li avrebbe pervasi. Cosmi freschi di forze e di determinazione; cosmi diversi, estranei e sconosciuti, timidi al cospetto del Sacerdote e infuocati in battaglia. Cosmi diversi da quelli dei compagni di due secoli prima, da scoprire e veder crescere.
“Una nuova generazione” sussurrò Dohko, e quelle parole gli raschiarono la lingua, sospese fra amarezza e speranza: occhi estranei a fissarti sotto elmi conosciuti; voci espandersi fra le colonne fino a sovrapporsi a echi udibili solo nella memoria; ricordi e condivisioni ormai dimenticate e lasciate cadere, abbandonate.
“Una nuova generazione, sì” e la testa di Shion indugiò in un movimento lungo, forse stanco.
Dohko intrecciò le mani: dodici cavalieri e Shion sul trono di Grecia, al fianco di una bambina da proteggere e custodire.
Sasha.
Rise fra sè, nel rombo della cascata. Non Sasha: Atena. Atena alla testa dei suoi cavalieri; Atena dagli occhi azzurri e dalla determinazione inflessibile. Atena dal sorriso di sole e dalla mente acuta. Atena. Atena. Atena.
Atena; non Sasha. Sasha è morta. Molti anni fa.
Atena. Come allora; come sempre. Di nuovo.
“Dovrai guidarli, Dohko. Dovrai guidarli; e confortarli”
“Con il tuo aiuto, Shion”
“Da solo, Dohko. Sarai solo”
E le parole si spensero, nel vento umido che si diffondeva nella cascata, giù fra l’erba troppo alta, verso un villaggio lontano fra i picchi rocciosi. Le parole si spensero, mentre l’amalgama di luce scuoteva il capo, in un gesto tanto vago quanto inevitabile. E Dohko sentì qualcosa rompersi. Sentì di aver perso qualcosa, qualcosa di importante, prima ancora di capire cosa esattamente fosse. E Shion muoveva lento la testa, il sorriso pallido fra le rughe, la pacatezza di un inevitabile accettato con tranquilla rassegnazione.
Sarai. Solo. Dohko.
“Da solo.”
“Sì” soffiò Shion, mentre si stringeva nella veste sacerdotale, forse per fingere indifferenza forse per nascondere disappunto. “Solo.”
E Dohko capì: capì che quella cena, consumata assieme e lontani, sarebbe stata l’ultima; capì che di Shion non avrebbe mai visto altro che il riflesso del suo ricordo nelle sfumature d’oro e viola di un cosmo che sedeva di fronte a lui. Capì che Shion sapeva e che non avrebbe fatto nulla per cambiare quello che le stelle gli avevano raccontato. Perchè dovevano esser state le stelle a raccontare a Shion qualcosa che era un addio.
“Sai come accadrà?” chiese in un soffio, o forse in un singhiozzo.
“Lo so. L’ho...visto.”
Shion socchiuse gli occhi e oltre il cosmo di Dohko immaginò un altro cosmo inquieto e disperato che si avvicinava. E nelle ombre del tempietto gli balenò, lucida, la visione, come quella notte di mesi prima, sotto le stelle dell’ariete. E nelle ombre altre ombre, immagini iridescenti e sfuggenti di parole rabbia rimorso orgoglio cosmi destino volontà rassegnazione rimpianto. Nelle ombre il viso delinearsi nitido, il cosmo brillare in una mano vista crescere, lacrime su un sorriso che sarà di decisione.
Perchè lui sceglierà la vita; perchè lui sceglierà di soffrire per raggiungere un’illusione. Perchè le stelle, per lui, hanno tracciato la strada più difficile, nei labirinti della mente e della volontà, nei trabocchetti della coscienza.
L’ho visto, si ripetè Shion e scivolò col pensiero all’elmo alato, alla tunica scura rifinita d’oro e di porpora; scivolò su membra nervose e tese, troppo giovani e troppo conosciute. Scivolò sugli occhi di Atena incastonati nei suoi. E la mano si mosse nell’aria, disperdendo come fumo una bolla di cosmo pronta a investirlo.
Sarà lì, prima o dopo. Su quell’altura, sotto quel cielo lontano e complesso. Sarà lì, fra gli echi del mito e del tempo, nel profumo di olive maturate al sole e di ginestra. Sarà lì, e Shion vedrà il cielo sotto l’architrave del prostilio nero e rosso e d’oro e azzurro. E negli occhi vuoti resterà il riflesso del sorriso azzurro di Atena.
“Un sicario?” osò chiedere Dohko, rigirando le bacchette nelle dita ossute. E il pensiero faceva male e la distanza era impotenza e la volontà di Anissa una costrizione mai prima pesata così tanto.
“Un cavaliere.”
E Dohko strinse i denti e le mani ossute furono polvere nella mente, fu il corpo sciogliersi nel fluire eterno della cascata, fu il respiro spezzato nella gola al ricordo di vecchi compagni e vecchi tradimenti di fratelli che si uccisero fra loro.
“L’hai cresciuto. Puoi fermarlo” suggerì, e dopo secoli si riscoprì infantile e ingenuo. Dopo secoli, riassaporò una testardaggine giovanile e la caparbietà di un’età lontana. E, seduto ai piedi della cascata, nei primi freddi di Cina, Dohko si convinse che, per l’ultima volta, poteva tornare a parlare come un ragazzo, come il Cavaliere di Libra di due secoli prima. Con Shion. Per convincere Shion.
“Sarebbe ingenuo pensarlo.”
“Atla potrebbe...”
“Atla è morto. Una settimana fa; assassinato.”
“Assassinato” ripetè Dohko e, lucido, nella mente si formò la consapevolezza, la ineluttabile certezza che, di nuovo, Shion lo aveva escluso. Di nuovo, Shion lo aveva a modo suo protetto e si stava comportando da egoista. Perchè solo un egoista, e Shion lo era, può gettarti addosso un’eredità di comando con il sorriso rilassato e tranquillo che Dohko riusciva a vedergli sul viso rugoso e grigio, anche nei baluginii del cosmo.
Shion è egoista, Dohko lo ha sempre saputo; e di quello che prova, dell’impotenza e della frustrazione che gli cresceranno dentro non se ne cura.
“Un successore” e la parola bruciò sulla lingua, mentre Dohko avvertiva la fretta e lo volontà di conoscere i pensieri più intimi e segreti di Shion. “Un successore: devi sceglierlo. In fretta. Domani. Adesso.”
“L’ho scelto” assicurò Shion, ma nel tono apatico c’era indifferenza. “Si è scelto, per la precisione.”
“Si è scelto? Ma cosa significa...” scegliersi avrebbe voluto chiedergli Dohko.
Cosa significa scegliersi? Avrebbe voluto sapere, ma la domanda si esaurì in un respiro più profondo, assieme all’intuizione di uno svolgersi di eventi che Dohko sfiorò per un istante, sotto le stelle traslucide di Grecia. Non chiese nulla Dohko e seppe che il suo silenzio era assenso; seppe che Shion sapeva e vedeva e conosceva il viso e il nome di chi aveva osato troppo e che non avrebbe fatto nulla. E, per un istante, credette di vedere qualcosa di simile all’orgoglio e alla sicurezza nel brillio del cosmo di Shion, mentre pensava a quell’uomo.
“Ricordi gli aquiloni, Dohko?”
La voce di Shion era pacata nel silenzio della notte, come una nenia o una preghiera; come lo stormio del vento nella steppa e fra le gole di granito; come il mormorio dell’acqua che si allontana dalla grande cascata di Cina. E quel suono, quel baluginio indifferente di cosmo fece più a male a Dohko di un colpo segreto, di un cosmo esploso.
“Li ricordo” biascicò fra rabbia e confusione. “Ma cosa c’entrano, adesso, gli aquiloni?”
“Quando ti venivo a trovare, durante l’addestramento, li abbiamo fatti volare spesso. E salivano in alto; molto in alto. Ti ricordi? Il mio restava sempre un po’ più in basso del tuo. Sempre un po’ più in basso.”
“Scherzi del vento” chiosò Dohko, stringendo forte le mani e socchiudendo gli occhi. “Fei Lian è da sempre capriccioso.”
Shion sorrise, gustandosi alcune olive in salamoia e immaginando nel riflesso verde del cosmo il disappunto di Dohko. Presagio avrebbe voluto rispondergli, ma sapeva che era superfluo. Shion sapeva che Dohko aveva compreso, e stava solo fingendo di sminuire le sue parole.
“Sei un shèng.”
“Lo so” sussurrò Dohko. “E sono impotente: tu vuoi morire.”
“Io devo morire. É diverso.”
Dohko respirò a fondo e a Shion sembrò di percepire l’odore di tabacco ed erbe secche che si disperdevano in placide volute di fumo mescolarsi all’acqua e al muschio della cascata di Cina. Erano trascorsi due secoli, e alla fine succedeva: il Polisemantor presto avrebbe fatto ritorno, forse proprio in seno al Santuario. E la dea fanciulla, la piccola Aithyia, avrebbe raccolto nel suo seno il compagno avversario per crescere con lui e soffrire del loro distacco.
E Shion doveva morire. Ma se Shion non morisse...
Dohko accarezzò il pensiero: due erano i cavalieri investiti del pieno cosmo, e due ragazzi si possono controllare. E uno era al Santuario e l’altro era lontano, nel mare scuro come vino. Shion doveva morire. Glielo avevano raccontato le stelle.
Ma se Shion non morisse...
E Dohko lo immaginò, il suo cosmo espandersi fino alla neonata costellazione che brillava nel Santuario; espandersi e avvolgere con dolcezza una mente ancora bambina, in bilico fra dedizione e follia. Lo avvertì, o immaginò di avvertire, il suo cosmo di aria insinuarsi fra rocchi e colonne conosciute, risalire la scalinata e...Se Shion non morisse.
“La bilancia è l’equilibrio” lo riscosse Shion senza preavviso, e l’immagine, l’impressione di un pensiero sbagliato naufragò fra i miscugli del cosmo. “E il tuo equilibrio è precario, adesso.”
“Sto per perdere un caro amico, anche se inaffidabile. Concedimelo.”
Shion rise, di quella risata piena e giovane di due secoli prima; rise e gli occhi nel volto vecchio e segnato brillarono di un guizzo adolescente e malizioso, di una consapevolezza che racconta uno scherzo che non si può svelare, non ancora.
“Inaffidabile” ripetè, gustando la parola assieme all’uva dolce. “Sono un ariete. Stai attento: posso ingannare.”
E Dohko ricambiò quel sorriso fatto di cosmo, e avvertì un non detto che non si poteva accennare; avvertì parole gettate nel fuoco perchè diventassero cenere e pungolo costante nella sua mente.
“C’è dell’altro” e non era una domanda.
“Forse” acconsentì Shion, e con il vino tracciò un cerchio sul marmo polveroso del parapetto. Perchè di quello che sarebbe successo dopo aveva solo un ricordo vago e confuso. E nelle tenebre che sanno di ghiaccio e asfodeli ricordava la compagnia di cosmi fanciulli e l’aria precipitare di nuovo nei polmoni e lacrime senza corpo e tempo scandito da fuochi azzurri. Ricordava...O forse illudeva quello che le stelle gli avevano raccontato. Ma parlarne a Dohko sarebbe stato troppo facile e troppo sbagliato: perchè Dohko non doveva sapere; perchè Dohko avrebbe dovuto capire con il tempo, in tredici anni lasciati passare nell’apatia e nell’inganno.
Lui avrebbe fatto quello che credeva giusto, e lo avrebbe fatto con ferocia e misericordia; lo avrebbe fatto con rimorso e decisione. Ma lo avevano deciso le stelle e Atena che sorride nel cielo: per Gemini avevano deciso la lacerazione, per la sua antitesi il rimpianto.
E Shion sorrise al sole che si insinuava oltre le alture, verso l’Eubea e una terra di neve e una terra di riso che non avrebbe più rivisto.
“Sarà presto?” sussurrò Dohko, mentre il riflesso della cascata tingeva d’acqua la pietra e le foglie rosse di un acero.
“Sì. Molto presto.”
E mentre il cosmo di Dohko svaniva nell’alba mattutina; mentre il cosmo di Shion scompariva nell’ombra delle creste rocciose si rividero assieme vestiti di metallo in cosmi ardenti, forse nel passato forse nel futuro, raccogliere petali sotto una pioggia sottile. Si rividero insieme, con le stesse lacrime e la stessa angoscia, giovani e complici di quel non detto che sapevano che avrebbero conosciuto.
E nell’ultimo sbuffo di una notte ormai finita, sorrisero di un saluto che voleva essere un nuovo incontro.

 

“Siamo come gli aquiloni”
Lo diceva spesso, Shion, fra le colonne vecchie di Atene; nell’aria umida di Cina. Lo diceva spesso, quando gli anni vissuti erano ancora pochi. Quando Shion aveva diciotto anni, e Dohko conversava con lui, sotto il sole caldo di Grecia; fra le foreste di bambù o nella neve accecante del Jamir.
"Siamo come gli aquiloni” ripeteva, e Dohko rideva al suo fianco. E di quella libertà legata ad un filo sottile; di quella libertà nelle mani di una dea bambina erano orgogliosi.
E sorrisero nel ritrovarsi su fronti avversi; sorrisero dei cosmi che si scontrarono e dell’inganno costruito senza parole. Sorrisero di tanti, piccoli nuovi aquiloni stretti nelle mani di Atena dagli occhi azzurri.
E Dohko sorrise nelle lacrime scure mentre di Shion restava polvere chiara dispersa nel vento e il sorriso impertinente di un ragazzo inaffidabile. Perchè era di Shion andarsene lasciandogli il compito di guida, senza preavviso. Perchè era di Shion studiare la situazione e gettarti in mano una strategia completa e contorta. Perchè Shion era inaffidabile, e Dohko lo aveva sempre saputo.
“Siamo come aquiloni” ripetè Dohko, e sorrise fra la nostalgia e il vuoto che Shion aveva lasciato: questa volta, Shion aveva raggiunto il cielo per primo.


 

Note conclusive:


 
1) Anissa, traslitterazione bizantina dell’epiteto greco antico anassa, significa signora ed è un epiteto spesso accostato, assieme a potnia, ad Atena e alle divinità guerriere in generale.

2) Il changshan è il tradizionale abito cinese maschile, costituito da pantaloni e una camicia lunga. I termine è nella variante in mandarino.

3) Il baijiu è un tipico liquore chiaro cinese distillato solitamente dal sorgo, dal grano o dal frumento nella Cina del Nord, mentre nella parte meridionale del paese è distillato dal riso. Ad alta gradazione alcolica, il baijiu può essere servito sia caldo sia a temperatura ambiente in piccoli bicchierini di ceramica. 

4) La kylix, spesso indicata in italiano con il nome di coppa, aveva un corpo espanso e poco profondo, con due piccole anse impostate poco sotto l'orlo e quasi orizzontali, sostenuta da un piede in genere con alto stelo ed era usata durante i simposi sia per le bevute sia per le libagioni o il gioco del cottabo.

5) Il cratere è un grande vaso utilizzato per mescolare vino e acqua nel simposio greco. Nel corso del banchetto i crateri venivano posti al centro della stanza e venivano riempiti di vino, a cui veniva aggiunta acqua per diluirlo ed abbassare il contenuto alcolico. Presenta un corpo tondeggiante, con corte anse per il trasporto e una larga imboccatura, ma se ne conoscono numerose varianti. Le forme più antiche presentano forma simile allo skyphos, una coppa per bere, e sono conosciute già in epoca micenea.

6) Le dolmades sono involtini di riso o carne trita avvolti in foglie di vite, in genere servite fredde e accompagnate da yogurt come antipasti o stuzzichini con l’aperitivo o comunque insieme ad un alcolico.

7) I sarikopitakia sono tipici rustici salati ripieni di formaggio e coperti con il miele, tipici della zona di Creta ma probabilmente originari della Turchia e di Costantinopoli. Il loro nome deriva probabilmente da “sariki“, ovvero turbante, a causa della loro forma arrotolata.

8) Il dou li è il nome cinese del tipico cappello di paglia originario del sud-est asiatico, di forma conica e viene fissato mediante una stringa di tessuto che passa sotto il mento, spesso di seta; all'interno è presente un'altra fascia che non lo fa muovere sulla testa. Questo cappello viene usato essenzialmente come protezione dal sole e dalla pioggia, specialmente da chi lavora nei campi di riso.

9) Fei Lian è, nella mitologia cinese, il dio del vento.n cinese del termine saint.

 

11) Polisemantor ovvero colui che comanda su molti (sem-an-tor sarebbe letter. ‘guida, condottiero, colui che dà il segnale’) è uno degli epiteti tradizionali di Ades. In origine è riferito al comando che ha sui morti; nella fanfic si riferisce al comando che ha anche sugli Spectre.

12) Aithyia è un epiteto tradizionale di Atena riferito ad un uccello marino. Nel mito Atena, sotto l’aspetto di una cornacchia del mare, avrebbe preso sotto le ali Cecrope, l’uomo primordiale serpentiforme, per portarlo da Atene a Megara.

 

 
Autore: Avalon9
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale
Personaggi Principali: Shinichi Kudo; Ran Mouri
Altri Personaggi: Heiji Hattori come guest star
Rating: rosso
In proposito: sono anni che Ran aspetta Shinichi; sono anni che Ran aspetta un amico d’infanzia. E, una sera, si accorge che Shinichi non è più un amico, si accorge di essere stanca di aspettare, e di voler essere egoista.
Disclaimer: i personaggi sono di Gosho Aoyama; la situazione invece la rivendico mia^^
Cose: All’inizio doveva concludersi al primo paragrafo, senza apparizione fugace di Heiji per intenderci. Poi ho cambiato idea e sono andata avanti. Finalmente scrivo qualcosa con un po’ di romanticismo come fulcro, e ci ho messo il rating rosso un po’ per sicurezza^^. E la lascio incompiuta. Nel senso che ognuno può immaginare la conclusione che preferisce, felice o tragica. Cavoli! Sembra che io non riesca a scrivere qualcosa di Detective Conan prendendo una decisione definitiva. Urge riflessione!
Dedicata a chi ama la coppia Shinichi/Ran, con una Ran che finalmente si stanca di aspettare il suo detective. L’ambientazione cronologica?...Mmh: i nostri attori hanno circa venticinque anni all’inizio; ventotto alla fine. Sì, decisamente li ho fatti crescere^^ E Shinichi è Shinichi in via definitiva, grazie alla cara Ai e al finalmente creato antidoto e Ran conosce, ormai, la sua ex duplice identità di Conan. Ma l’organizzazione c’è ancora (sono duri a morire, i MIB XD) e Shinichi sta vivendo alla macchia peggio di un latitante.
La cosa più difficile è stato rendere i caratteri di Shinichi e Ran; non so se ci sono riuscita: a voi la sentenza!

  

 

            Solo una notte

 

“Posso darti solo questa notte.”
“Lo so.”

Le parole sono strane, a volte. Ti possono far male e ti possono lasciare con tante domande dentro, nella testa, che rimbombano e si rincorrono.
Le parole possono far male, a volte.
E tu, Ran, delle parole, di quello che si celava dietro alle parole, avevi paura. Tanta paura. Ma avevi imparato che la paura è meglio dell’incertezza; avevi imparato che aver paura per Shinichi era meglio che non sapere nulla di lui.
Avevi imparato, Ran. Ad aspettare telefonate rapide e di ovvietà; avevi imparto a studiare la voce un po’ metallica e troppo distante di Shinichi; avevi imparato a ridere e a preoccuparsi e ad arrabbiarsi con Shinichi.
Avevi imparato che le cose possono cambiare senza che l’apparenza si modifichi. E ti era scoperta donna con paura e sorpresa. E ti era accorta che Shinichi era uomo.
Dentro una stanza piena; dentro l’ennesima indagine che seguivi, gli occhi socchiusi e voci congetture e ipotesi che si rincorrevano; dentro la voglia di andartene e a omicidi e morte e dolore non pensarci. Dentro un’attesa che si dilatava, sospesa fra il quotidiano e il sempre, aveva riscoperto un amico d’infanzia apparso quasi per scherzo.
Shinichi dagli occhi che ammiccano sicuri; Shinichi dal mezzo sorriso un po’ arrogante un po’ infantile. Shinichi che sussurra all’orecchio parole che Ran non vuole sentire, per non sperare di nuovo in un sentimento lasciato fermare. Shinichi che scompare, il respiro irregolare sul viso troppo sudato e pallido, senza risposte e con troppe promesse che andranno infrante.
Shinichi.
E scoprirti a seguire il disegno di labbra carnose sempre conosciute e mai osservate; indugiare su un viso un po’ pallido un po’ provato; chiederti dove sia scomparso il sorriso pieno e un po’ arrogante di un tempo, quando per Shinichi le deduzioni erano un’esibizione e un omaggio che lo inorgogliva. Chiederti il perchè, adesso, di un’espressione sempre sospettosa e di quell’aria di apparente apatia e sapere che fanno male e, tuttavia, sono così belle. Così...
E intuire un fisico diverso, sotto vestiti nuovi e sconosciuti. Vedere un corpo più saldo, un’altezza diversa; vedere in ogni gesto una maturità che non si conosce, non si ricorda. E realizzare che Shinichi non è più un adolescente, ma un uomo. Accorgersi di un fascino differente, non più tenero e innocente. Accorgersi che Shinichi è sensuale. Quando arriccia le labbra sprezzante; quando aggrotta la fronte pensieroso; mentre sbuffa e, le mani in tasca, guarda tutto e non osserva niente.
Shinichi è sensuale.
E scoprirti a fantasticare sull’odore della sua pelle, sulla sensazione delle sue labbra; scoprirti a desiderare le sue braccia attorno al corpo, sul corpo. Nudo. E averne vergogna e averne piacere; e essere gelosa di quella vita che Shinichi trascorre lontano, delle persone incontrare che non hanno volto nome; delle donne...delle donne forse consolate forse abbracciate. Scoprirsi invidiosa di sensazioni agognate e mai provate, per paure e per pudore, dentro un sentimento che cresce col tempo.
E capire che qualcosa è cambiato e non averne paura. Desiderare Shinichi senza vergogna o pudore. Desiderare più di una voce che racconta in una cornetta, senza tempo e senza spazio; desiderare Shinichi perchè è Shinichi, e non un amico un compagno un detective. Desiderare il suo corpo e la sua attenzione, un sorriso diverso e un calore sconosciuto.
E sorridere divertita della sua espressione attraverso lo spiraglio della porta. Sorridere mentre ti lascia entrare in quella casa che conosci troppo bene e sa di un tempo ormai passato, sa di polvere e chiuso. Accettare la tazza calda nelle mani fredde di un inverno di venticinque anni; accettare una conversazione un po’ infantile un po’ imbarazzata, tu sulla poltrona lui sulla scrivania. Come da ragazzi. Quando Shinichi era amico e non uomo; quando Shinichi non era una presenza effimera e sfuggente; quando lo potevi vedere in ogni momento e non dovevi affidarti al tempo e alla sorte.
Come da ragazzi. Quando tu eri ingenua; quando imparavi il rossore al suo sguardo; quando aspettavi ad appuntamenti che non si avveravano; quando piangevi e non potevi nemmeno insultarlo.
E sfiorargli le labbra (carnose e un po’ screpolate) con un dito mentre cerca la voce per protestare, mentre cerca di allontanare la tua mano che scivola sul maglione. Sfiorargli le labbra e toccare quello che hai scoperto di desiderare, mentre la mano accarezza un collo teso e ancora risale, ad un viso visto cambiare, ad un viso sottile con la mascella dura e il naso elegante, con il pizzicorio leggero di una barba appena rasata.
E accostare la guancia alla sua guancia e sentire un profumo che non è solo dopobarba ma è uomo e desiderio come il tuo. E le sue mani, le sue braccia attorno al tuo corpo, nella consapevolezza di un abbraccio che ti vorrebbe allontanare, nella volontà di una distanza che adesso tu vuoi annullare.
Ran.”
Lo senti implorale, la voce un po’ bassa un po’ roca. Lo senti implorare di non costringerlo, di nuovo, a parlare; di non obbligarlo di nuovo a spiegare qualcosa che adesso conosci e ti ha fatto rabbia e ti ha fatto male. Lo senti implorare e soffi un sussurro al suo orecchio, con una malizia nuova che ti diverte. Con la certezza di donna che hai deciso di essere. Soffi parole in un bisbilio indistinto, e le mani insinuarsi in capelli un po’ più corti e sempre ribelli; insinuarsi sotto un maglione per scoprire tremore su un corpo allenato.
Lo senti implorale in un rantolo che sa di singhiozzo, la sua testa che ti preme sulla spalla, la sua fragilità, la sua stanchezza che ti investe. E ti ricordi che per una volta vuoi essere tu l’egoista; per una volta vuoi costringerlo tu. E ti ricordi che Shinichi è Shinichi e non un bambino; ti ricordi che il bambino è sparito negli anni e fra le braccia hai un uomo che ti stringe i fianchi e forse ti vorrebbe amare.
“Sei così pallido” gli sussurri stringendogli il viso fra le mani, seguendo l’espressione di un sorriso un po’ ironico un po’ amaro. Mentre rivedi un viso arrossato e due occhi grandi osservarti dietro lenti fasulle; mentre ricordi un viso infantile sorriderti e rassicurarti. E riscopri la stessa espressione un po’ dolce un po’ abbattuta nelle fossette ai lati delle labbra, nelle piccole rughe espressive.
“Sono solo stanco, Ran.
E mentre gli sollevi i capelli dalla fronte; mentre gli accarezzi la cicatrice nascosta dal sopracciglio; mentre senti le sue gambe stringersi di più al tuo corpo e non lasciarti andare riconosci la verità e la bugia mescolarsi nella smorfia che gli sfugge sul viso.
E gli abbassi le palpebre su occhi che ti implorano di lasciarlo, su occhi che ti chiedono di amarlo e di perdonarlo. Gli abbassi le palpebre e sospiri al suo respiro sulla tua gola, a quel gemito che sa di sollievo e dolore mentre discendi lungo il suo viso. E glielo stringi forte, il viso, e gli stringi forte le spalle mentre lo baci e lo baci e lo baci. Mentre lo senti ricambiare e respirare nel tuo respiro, inseguire il tuo desiderio, quell’attrazione che hai realizzato fissando la pioggia scorrere sul vetro nell’inverno di venticinque anni. Quel bisogno che non hai più ignorato, nel pensiero di una valigia che stava finendo e di una casa di nuovo lasciata ammuffire; nella dolorosa consapevolezza di non ritrovarlo e ancora aspettarlo, senza certezze e promesse.
Ran” ti sussurra, la penombra in una stanza che era di un ragazzo. Ran ti sussurra soffiando sul tuo viso; Ranti sussurra mentre i capelli ti accarezzano il viso e senti la sua voce, la sua bocca, sul tuo collo; Ran ti ripete in un singulto roco, con le mani sul tuo seno, con le mani suoi tuoi fianchi.
“Posso darti solo questa notte.”
E lo baci mentre gli lasci fra le mani un bottone della tua camicia; lo baci mentre ti lasci spogliare, senza rossore e senza timore; lo baci mentre gli sfili il maglione e ti lasci guardare. E riconosci in gesti nuovi la stessa emozione, lo stesso tremore di un desiderio sempre avuto e trattenuto. E lo stringi al tuo corpo nudo quando lo senti esitare, la paura di farti ancora del male; lo stringi e glielo lasci capire il bisogno che hai di sentirti voluta, di sentirti desiderata.
“Domani” ti prova a spiegare, con labbra secche e respiro già roco e a stento controllato. “Domani non ci sarò, quando ti sveglierai.”
“Lo so.”
“E non ci sarà nemmeno Conan, Ran.”
“Lo so.”
E ti compiaci del gemito alle tue gambe attorno ai suoi fianchi; ti compiaci di quel viso che non puoi vedere e non vuole guardarti. E sorridi senza rimorsi e paure al suo respiro sul seno, alle sue mani nei tuoi capelli, alle sue labbra che ti mordono la pelle.
“É solo una notte, Ran.”
E non lo lasci continuare; non lo lasci di nuovo scappare. E mentre lo stringi e lo fai rotolare sul materasso; mentre gli fai ingoiare quel non voglio farti del male; mentre decidi che quel male lo vuoi sentire dentro la carne, dentro nostalgia e paure che puoi controllare; mentre lo provochi e lo senti cadere in una implorazione che sa di desiderio. Allora capisci che quella sola notte saranno tante notti; capisci che ogni volta ci sarà una sola notte, senza pensare che potrebbe essere l’ultima. 

                               ***

“Sei un idiota, Kudo.”
“Lo so.”
“Da quanto...
“Tre anni.”
“E non mi hai detto niente” sospiri, le mani a stropicciarti il viso. Quasi irritato quasi divertito. E dell’offesa e della rabbia e delle parole sulla lingua te ne dimentichi subito, in quel bar di periferia, mentre Kudo guarda dalla finestra, un cappellino ben calato in testa e il bavaro alzato. Te ne dimentichi subito, di rabbia e offese, e sorridi e ridacchi, mentre Kudo ti fissava senza emozione, gli occhi socchiusi.
“Sono felice. Per te.”
Toyama come sta?” ti chiede, mentre nasconde una smorfia nella mano. E tu lo sai che quella smorfia è per le tue parole, per quella approvazione che Kudo non ti chiede e per la richiesta che non vuole farti. É orgoglioso Kudo; lo è sempre stato.
“É Hattori-domo, ora” lo correggi nel ricordo di due bicchieri di sakè sorseggiati di maggio, negli occhi la ricerca di un viso sfuggito fra la folla e di un cenno fugace. Nel ricordo di un rischio giocato per orgoglio. E lo vedi accennare un sorriso che sa di rassegnato; lo vedi stringere la tazzina da caffè e inghiottire un pensiero che ricorda un rimpianto.
Cosa farai adesso Kudo?”

                              ***

“Io non ci sarò.”
Te lo dice di spalle, in quel letto dove ti ha avuta. Te lo dice di spalle, la testa bassa e la voce distante. E tu sorridi di quella sensibilità nascosta, di quella dolcezza travestita da indifferenza. Sorridi di una maschera che hai imparato ad aggirare, che hai scoperto di saper ignorare; sorridi e lo lasci parlare, le spalle nude nella penombra di una candela dimenticata accesa.
“Non ci sarò alle ecografie; non ci sarò per progettare qualcosa; non ci sarò se vorrai stringermi la mano la notte e se starai male per la nausea.” ti sussurra, e in quella voce adulta recuperi i pianti e i capricci di un bambino; recuperi la rabbia e il rammarico di un uomo.
“Non ci sarò nemmeno domani mattina, Ran” ti ricorda con negli occhi la richiesta di non costringerlo a restare; con negli occhi la preghiera di non lasciarlo andare. E ti stringe forte mentre gli accarezzi le spalle, mentre gli accarezzi i capelli e sai che non hai paura e non hai incertezze. Mentre lo baci e ci fai di nuovo l’amore, ancora e ancora come una sola notte. Anche se di notti ce ne sono state tante, dopo.
Anche se di notti strette al suo corpo ne hai vissute tante, in tre anni.
Anche se di notti passate da sola nel letto ne hai perso il conto.
Anche se è sempre una sola notte.
“Vuoi davvero...
“Lo voglio” gli sussurri, un dito sulle labbra per non farlo continuare. Un dito sulle labbra per accarezzare la piega impercettibile di un sorriso che non vorrebbe farti sapere. E gli premi l’orecchio al tuo ventre; e gli accarezzi i capelli e ti fai abbracciare. Perchè hai imparato ad essere egoista con Shinichi; perchè hai imparato che per te Shinichi è uomo. E tu vuoi essere sempre una donna.
Una sola notte; per ogni notte che riuscirà a tornare.

                                ***

“Lo vuole.”
“E tu cosa le hai...?” indaghi, il cellulare stretto all’orecchio e una sigaretta fra le labbra. Mentre Osaka è caos e macchine dalla finestra della centrale di polizia.
“Che non ci sarò.”
Mouri è cresciuta. Davvero.” ridacchi, e ti godi quel mezzo sorriso che immagini gli sta increspando le labbra; ti godi il pensiero di quel lieve imbarazzo nascosto. “Starà bene, vedrai.”
Hattori...
“Ci penserò io, Kudo” lo rassicuri, per quel nome soffiato senza coraggio di chiedere; per quel nome strascicato per orgoglio troppo pagato. “É una promessa. D’accordo? Tu pensa solo a tornare.”
Hai.”

                                ***

                   “É solo una notte, Ran
                “Sarà la nostra notte, Shinichi.”

 
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