Autore: Avalon9
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale
Personaggi Principali: Shinichi Kudo; Heiji Hattori
Altri Personaggi: Ran Mouri e Kazuha Toyama come guest star
Rating: giallo
In proposito:Fa male, vero? Non è giusto. E fa male. E, in fondo, lo sai che la colpa è tua. Solo tua. E ci preferiresti essere tu, in quel letto. E ti andrebbe bene ascoltare e ascoltare e sapere che, in fondo, quello che ti dicono sono tutte bugie. Perchè non sei stupido e di medicina, almeno un po', te ne intendi anche tu.
Un piccolo confronto fra Heiji e Shinichi: il loro rapporto, la sua evoluzione. I dubbi, le paure, le certezze. Con, incombente, un terrore che non si vuole affrontare e con cui bisogna confrontarsi ad ogni (ultima) parola.
Disclaimer: i personaggi sono di Gosho Aoyama; la situazione invece la rivendico mia^^
Cose: Dunque. La prima fan fiction che scrivo, in questo fandom. E la lascio incompiuta, in un certo senso. Perché, io per prima, so che non si capisce esattamente se il trapianto necessario a Heiji avverrà o meno o se (come dice Shinichi) morirà. Ma ho voluto così; ognuno è libero di leggere soprattutto le ultime battute come maggiormente gli aggrada: realtà, ricordo, illusione, paura, realtà traslata (o metaforica, che dir si voglia). In definitiva, nello scrivere questa fanficion, mi sono accorta che non mi interessava la conclusione in sé, ma il processo per arrivarci. Mi interessavano (stimolavano) le situazioni che potevano crearsi, i dialoghi che Shinichi e Heiji potevano fare in ospedale, in attesa del trapianto, e i collegamenti retrospettivi che avrebbero potuto creare. Adoro Heiji e Shinichi; e li adoro in coppia. Credo (temo) che il loro rapporto sia uno dei più belli, complessi e sfaccettati in cui finora mi sia imbattuta in un anime/manga. Mi sono divertita a invertite le parti, in un certo qual modo. Di solito, è Shinichi il pessimista, quello rassegnato (non in senso assoluto, sia chiaro); mentre Heiji ha dalla sua una carica di entusiasmo e vitalità splendida. Qui, invece, mi sono chiesta: e se per una volta fosse Heiji a non confidare più? In definitiva, è lui quello disteso in un letto d’ospedale; è lui il nome in una lista di mille altri. Penso che in un simile contesto Shinichi sarebbe disposto ad accantonare la logica e la razionalità per il solo intento di poterlo rasserenare almeno un po’. Nove quadretti, in tutto. Nove rimpianti o ricordi o testamenti che Heiji ha o vorrebbe lasciare. Nove piccoli spaccati senza alcuna pretesa del suo rapporto complicato con Shinichi Kudo. E sulla sua ferma decisione di essere, comunque, sempre dalla sua parte, al suo fianco.
 

 

                                      Shoin Monogatari
                                      Racconti di studio


Ehi, Hattori.
A te…non è mai capitato…di uccidere qualcuno?
(Shinichi Kudo, Volume 16 file 2)


Fa male, vero?
Non è giusto. E fa male. E, in fondo, lo sai che la colpa è tua. Solo tua. E ci preferiresti essere tu, in quel letto. E ti andrebbe bene ascoltare e ascoltare e sapere che, in fondo, quello che ti dicono sono tutte bugie. Perché non sei stupido e di medicina, almeno un po’, te ne intendi anche tu.
Ma le ascolteresti lo stesso, quelle bugie. E non ti interesserebbe perché.
Perché è bello, in fondo, ogni tanto sperarci, in qualcosa di diverso. Perché, per una volta, la verità la si può dimenticare.
Ci dovresti essere tu, in quel letto. Vero, Shinichi?
O forse non dovrebbe starci nessuno. Anche se (è vero) la colpa di tutto è stata tua. Perché ti piaceva (giusto?) giocare al detective. E alla realtà (diversa. Pericolosa) non ci pensavi. Ti divertivi; ed era come nei libri.
Ragiona; ragiona; ragiona.
Ti divertivi; e ai pericoli, a quelli veri, non ci avevi mai pensato prima (seriamente). Perché il libro lo puoi riaprire; perché il libro ricomincia e tu, di nuovo, cerchi e cerchi e cerchi. E se la soluzione scappa non importa. Tanto c’è tempo; c’è sempre tempo (nei libri).
Era un gioco, per te, Shinichi. Un gioco serio.
E in qualcosa di serio (un gioco) ci sei caduto. E no, di tempo non ce n’era più. C’era la paura, la ricordi Shinichi? Tanta paura. E c’erano le bugie.
Hai imparato a dirle bene, le bugie. Giusto, Shinichi?
E lui le ha scoperte. Ma – forse – volevi che lo sapesse, giusto? Volevi guardarlo negli occhi e potergli dire: watashi wa Shinichi Kudo desu.
E quella volta, mentre lo guardavi, mentre la voce se ne stava lì, nella gola con un vecchio respiro addormentato; mentre ti chiedevi perché e forse la risposta la sapevi, ma non ci volevi credere nemmeno tu; mentre lui aspettava e – lo sai; ne sei sicuro – ci godeva nell’averti lasciato senza parole; mentre pregavi e pensavi e sapevi che una soluzione non ce l’avevi. Quella volta (lo sai bene, Shinichi), quella volta non hai avuto paura.
Perché Hattori sorrideva (maledetto) e ti prometteva: sarà un segreto nostro.


[ # Negativo 1]


“Mi sarebbe piaciuto vederla”
“Cosa?”
“Casa tua. Alle Hawaii”
“La vedrai”. Il libro (pesante) sul comodino e quel sorriso – falso; ma per una volta si può mentire anche a lui, no?. “La vedrai” ripete (triste) convinto.
"Lo credi?”
“Hai”

Gliene hai parlato tanto (troppo).
Gliel’hai fatta immaginare, quella casa. E Hattori – lo sapevi, Shinichi – è curioso. E di vederla, quella casa, ne ha sempre avuto voglia.
Ti piaceva provocarlo, vero Shinichi?
E una sera gliene hai parlato; te ne ricordi Shinichi?
Mentre l’engawa era tiepida e il kayaributa fumava; mentre le pagine si sfogliavano e per una volta il tempo lo passavate a chiacchierare senza chiedere se c’era un perché. Aveva insistito tanto, quella volta, Hattori. Perché Sumiyoshi è bella, a Osaka. E aveva voglia (troppa. Pericolosa) di parlare con te. Hattori parlava e raccontava della sua (amata) città. Perché Hattori, con te, (lo sai, vero Shinichi?) voleva condividere.
E tu (bambino) non volevi capirla, quella condivisione. Tu (diviso) avevi paura – ricordi Shinichi? –  di dividere troppo. E di restarci intrappolato, in quelle parole.
Gli hai fatto male, quella volta. E lo volevi, giusto Shinichi?
Perché gli hai detto che Osaka era bella, ma io preferisco le Hawaii. E Hattori (te lo ricordi bene, Shinichi) ti ha fissato e le spalle (grandi; adulte) si sono strette. E hai pensato: acacian.
Ma Hattori le spalle (strette) non le alzava più e tu (adulto) ti sei sentito (per la prima volta) bambino. Perché quella volta la paura (strana) premeva e premeva, ma di scappare non lo volevi. Te lo ricordi Shinichi? E Hattori (zitto) urlava: non allontanarmi.
E mentre l’engawa (tiepida) diventava nera ti sei detto che , (forse) potevi permetterti una promessa così; potevi lasciarlo avvicinare – un po’.
E gli avevi detto che alle Hawaii avevi una casa e un giorno (forse) ci sareste potuti andare.
E Hattori (al buio) rideva e parlava e progettava; e quell’urlo (non allontanarmi) adesso diceva: oki ni.


[ # Negativo 2]

“Kudo”
“Nani?”
“Il mio cappello”. Gli occhi (stanchi) respirano nel tramonto. E la mano si allunga; e sembra rammarico. “Ricordati la visiera girata. Porta fortuna”
“Prestito, giusto?”
“Lo credi davvero?”
“Hai”

Hattori è geloso del suo cappello.
Lo sai bene, vero Shinichi? Non te l’ha mai fatto toccare. Non lo fa mai toccare a nessuno (una volta te lo ha messo in testa. Te lo ricordi, Shinchi? Ma quella era l’eccezione). E se lo tiene stretto, quel cappello, Hattori.
Ce lo aveva anche quella volta, te lo ricordi? Quando vi siete conosciuti.
E la visiera (porta fortuna) non era dietro. Perché la visiera (che è girata) Hattori la mette al posto giusto, quando ha la soluzione. E ti guarda con quel mezzo sorriso sfacciato e –chissà perché – ti viene voglia di ridere e ridere e dire: hai.
Perché con Hattori è bello giocare. E il gioco (serio) è più divertente.

Perché (Ricordi, Shinichi? Glielo hai insegnato tu) non ci sono vincitore o vinti. E alla fine, era sempre il sorriso di Hattori, la soddisfazione tua e quel cappellino che ruotava e tornava al suo (sbagliato) posto.

Non te lo ha mai fatto toccare, il suo capello, Hattori.

Ma una volta voleva regalartene uno uguale, ricordi Shinichi? Quella volta (forse a maggio, o forse era autunno) Osaka era calda e tu (bambino) il caldo non lo sopportavi più, mentre cercavi e cercavi una soluzione tanto ovvia da scappare. E Hattori un cappellino te lo aveva messo in testa e ti aveva detto: siamo una squadra.

Ma tu il cappellino(la squadra) non l’hai voluto. Perché avevi paura, ricordi Shinichi?

Perché un bambino (tu) non può difendersi, e Hattori a te ci pensava sempre (troppo). E anche la squadra (un cappellino) non la volevi. Ma la desideravi tanto, vero Shinichi?

Alzare gli occhi e vedere quel sorriso. E sapere che Hattori c’era e il suo cellulare potevi chiamarlo quando volevi.

Perché Hattori aveva detto: siamo una squadra. E io ci sarò sempre.

[ # Negativo 3]

“Davvero?

“Hai.”

“Noi due insieme”. La risata (un colpo di tosse) a riempire la stanza (stretta). “Sarebbe bello, Kudo”

“Sarà bello, Hattori”. La mano (fredda) stringe e cerca (disperata) di afferrare, trattenere, fermare. Mentre la tosse (una risata) rimbomba e rimbomba. “Sarà bello”

“Tokyo o Osaka?”

“Dove vorrai”

Hattori ha quel sogno da tanto.

Non te lo ha mai detto, quando ha iniziato a sperarci. Ma (lo sai, vero Shinichi?) quello di Hattori è un vecchio sogno. Ma lui no, non lo chiama così. Hattori dice: progetto.

Perché Hattori ne ha fatti molti, di progetti; ne ha tanti.

Ma quello l’ha pensato per (con) te.

E a te non dispiace, vero Shinichi?

Era stato un gioco, nato così. Mentre il mento (tuo) era sempre più basso e lo sconforto e la paura (hai imparato bene cos’è la paura. Giusto, Shinichi? Troppo bene) salivano e salivano. E un perché non c’era. Avevi imparato a conviverci, con quella sensazione. E avevi imparato (per proteggerti) a non illuderti.

Ma Hattori alle illusioni (sogni) ci ha sempre creduto. E della tua faccia un po’ delusa un po’ arrabbiata non ne voleva proprio sapere. E c’era il kotatsu caldo e due tazze di thè e l’occhiata (pericolosa) di Hattori; e la televisione gracchiava e gracchiava e fuori Osaka era freddo e nebbia.

E (lo avevi percepito, vero Shinichi?) c’era un’aria strana e, mentre alzavi la testa (un po’ delusa un po’ arrabbiata), avevi pensato: sicurezza.

E quel progetto (un’illusione) lo avevi ascoltato; anche se no, non ti eri dato il permesso di crederci. Ma Hattori rideva e rideva e parlava e – lo ricordi, Shinichi? – tu non capivi se scherzasse o se dicesse sul serio. Ma Hattori te lo aveva detto (pericoloso) e in quel progetto (un’illusione) ci crede(va) davvero.

E (in fondo) volevi crederci anche tu, vero Shinichi? E litigare per l’ordine dei nomi sull’insegna, e giocare a rincorrere le soluzioni e sfidarsi anche se sapevi che, in fondo, il traguardo lo tagliavate sempre assieme. E discutere di libri e di casi e poter costruire di nuovo qualcosa.

Lo desideravi, vero Shinichi? E a Hattosi hai detto: hai (anche se di illuderti non ne volevi sapere).

E Hattori sorrideva e ripeteva: la nostra agenzia.

[ # Negativo 4]

Non lo detestavi, Kudo?”

“Cosa, Hattori?”

“Ellery Queen”

“Infatti”. Il sorriso (malinconia) si nasconde dietro il libro, mentre gli occhi (addormentati; ma non importa. Resta ancora un po’) si stringono strizzano. “Ma a te piace, no?”

“Aho no Kudo”

“Domo. Vado avanti a leggere?”

“Hai”

L’accento di Hattori è diverso.

Sembra una risata. E ad Hattori ridere piace(va); te lo ricordi, Shinichi? Hattori (l’accento) è diverso. E tu – lo hai sentito, vero Shinichi? – ci vai d’accordo.

Perché con la risata (Hattori) ci puoi parlare e non ridacchia e non sbuffa e non si arrabbia; con Hattori (ridendo) fai discorsi seri.

Hattori serio non lo sembra mai, ma tu la sai, Shinichi, la differenza. Perché non è difficile, alla fine, parlare con Hattori. E è bello (ma non glielo dici mai, vero Shinichi?).

E ad Hattori piace parlare con te. Perché si diverte – lo sai – con il suo dialetto diverso. E le risate (osakaben) continuano e continuano.

Hattori rideva anche quella notte. Mentre i petali scendevano; mentre il futon (caldo) era stretto; mentre le parole erano sussurri. Hattori parlava e raccontava e si confidava e sembrava che fosse sempre stato così. Quella notte (era aprile), mentre la maglia di Hattori era larga; mentre gli occhiali erano dimenticati sotto un cappellino. Quella notte – lo ricordi bene, Shinichi – Hattori aveva riso (senza le parole) e tu (bambino) avevi riso con lui.

Perché Hattori ti punzecchiava e ti sfidava e ti provocava. Ma la risata (un accento) ti sussurrava: fidati.

 

[ # Negativo 5]

 

 

“Ehi, Kudo”

“Cosa c’è?”

“Kazuha”. Il respiro (pesante) rimbomba. Mentre il sole si taglia nelle tapparelle; mentre gli occhi iniziano (maledetti) a sfumare. “Avrei voluto sposarla”

“La sposerai”. E la voce è un nodo; e resta a gracchiare in gola. Anche se ripete e ripete e ripete: “La sposerai”

“Mi farai da testimone?”

“Certo”

Toyama viene ogni giorno.

Si siede, e parla. Parla e parla e racconta. E a te fa rabbia, vero Shinichi? E fa male. Perché Toyama parla e parla, ma – lo sai – vorrebbe piangere.

E la colpa è tua, giusto Shinichi? Anche se non te lo ha mai detto. Anche se Toyama sorride e parla e a rinfacciarti qualcosa (ma ha ragione, Shinichi) non ci pensa nemmeno.

Hattori è contento, quando viene Toyamasan. E parla e ride e dice (finge): sto bene. Perché – lo hai capito subito, vero Shinichi? – Toyama è preziosa per Hattori.

E Hattori a te (ed eri un bambino) lo aveva confidato.

E c’erano i fuochi d’artificio e una granita in mano; e Hattori apriva la bocca e la chiudeva. E tu (che avevi capito) avevi voglia di dirgli solo: va’ da lei.

Ma c’era il bambù e striscioline di carta e Hattori girava e rigirava la granita e ti guardava (supplicava). Perché aveva paura, Hattori; e lo diceva a un bambino (a te)

Hattori è contento, quando viene Toyama. Ma tu no, vero Shinichi?

Perché lo sai che Toyama è arrabbiata. E la sa anche Hattori, ma sorride. Perché Toyama (che è arrabbiata) viene ogni giorno. E gli dice: guarisci.

Hattori te la ha detto, Shinchi, che Toyama è speciale. Ed era estate e rideva e balbettava e ti aveva detto: dammi un consiglio.

E tu (bambino) gli avevi detto: perché? E della sua risposta – lo ricordi, Shinchi? – avevi (troppa) paura. Perché Hattori scrollava le spalle e ridacchiava; perché Hattori a te i consigli li chiedeva sempre; perché Hattori voleva (sapeva) qualcosa che ti terrorizzava.

Ma un bambino (tu) avevi paura. Anche se Hattori sorrideva e ti guardava e (maledetto) ti diceva: perché sei il mio migliore amico.

[ # Negativo 6]

Non hai da fare, Kudo?”

“Se ti do fastidio, me ne vado”

“Davvero lo faresti?”, Il sorriso (pallido) si accenna; mentre la voce accarezza (forse divertita) una vecchia (complice) sensazione.

“Hai” - Ie.

“Sei sempre stato un pessimo bugiardo.”

“Lo so”

Con Hattori le bugie non funzionano.

Lo sai bene, vero Shinichi? Non sei mai riuscito a convincerlo di una, delle tue bugie – ma eri contento così, ricordi Shinichi?

Con Hattori le bugie (che dovrebbero funzionare) sono inutili. Perché lo aveva intuito subito, Hattori, che qualcosa non era normale. Perché un bambino (tu) non piangeva e non si spaventava; perché tu (un bambino) cercavi e chiedevi e lo guardavi e sembravi dirgli: l’hai trovata, la soluzione?

Con Hattori le bugie non sono servite – mai.

Ma lo hai costretto a dirne tante, di bugie, vero Shinichi? E – lo sapevi – ad Hattori le bugie sono sempre andate strette. I segreti , li sa mantenere, Hattori. Ma le bugie gli restano incastrate nella gola. E tu lo sapevi, vero Shinichi?

Ma Hattori le bugie (e no, non gli piacevano) per te le diceva. E ridacchiava e improvvisava e pensava e inventava. Perché te lo aveva promesso, Shinichi. Mentre la luce si rompeva sul finestrino; mentre la voglia di ridere e di chiedere e la sorpresa erano un mezzo sorriso e quegli occhi (dannati) ti studiavano. Te lo aveva detto, Hattori, e no, non era stata una bugia (perché ad Hattori – lo sai – le bugie non piacciono): non lo dirò a nessuno.

Tu eri bravo, con le bugie, Shinichi. Ma ad Hattori ci hai rinunciato subito, a dirle.

Perché Hattori, le bugie, le schiacciava subito. E, in fondo, avevi bisogno che qualcuno (lui) ti ricordasse chi sei. E lui (non qualcuno) il segreto lo aveva tenuto (anche se le bugie no, non gli piacciono) e ti chiamava e sussurrava: Kudo.

Le bugie – lo ricordi Shinichi? – avevi imparato a dirle bene; anche se a Hattori non piacevano. Ma con Hattori le bugie erano pessime.

Perché (mentre il viaggio scorreva) rideva e ripeteva: non lo dirò a nessuno.

[ # Negativo 7]

“Per quando, Kudo?”

“Settembre”

“È un bel mese.” Il respiro (vecchio) si affievolisce; mentre la mano ricade; mentre il corpo (addormentato) resta immobile. “Vorrei vederlo”

“Lo vedrai. Al tempio”

“Al tempio”

“Hai”

La pancia di Ran è grande.

Mentre la mano (pallida) trema un po’; mentre negli occhi (vuoti) c’è di nuovo qualcosa. Mentre Ran stringe e accarezza quella mano e Hattori di ridere, forse, ne ha di nuovo voglia.

Hattori era contento, ricordi Shinichi?

E c’era il mare in lontananza e il freddo nelle ossa e quel tuo mezzo (fastidioso) sorriso. E avevi voglia di ridere, ricordi Shinichi?

Avevi voglia di ridere e urlare; perché Hattori era venuto – senza avvisare.

Perché Hattori era venuto, quando qualcuno glielo aveva detto. E aveva sorriso e aveva riso e ti aveva stretto stretto – ed era bello, vero Shinichi? – e aveva detto: omedetoo.

Hattori era venuto, e adesso, sulla pancia (grande) la mano la teneva. E cercava e rincorreva e sentiva quel qualcosa muoversi e colpire e fare tutum tutum.

Hattori era venuto, e ti aveva rimproverato e preso in giro. Perché tu (chissà perché) non lo avevi chiamato. Perché quel segreto (che non fa paura) a lui non lo avevi confidato – non subito.

Ma Hattori era venuto e ti aveva detto (pericoloso): ci sarò anch’io, al tempio.

E – la ricordi, Shinichi? Quella bella sensazione – avevi pensato che , ce lo volevi al tempio Hattori.

Perché Hattori rideva e ripeteva: omedetoo.

E faceva progetti, Hattori (che no, non erano illusioni. Ancora). E parlava e parlava e contava (uno, due, tre) i mesi sulle dita. E sbagliava e rideva e ricominciava. Perché, in fondo, davvero non gli interessava, il mese.

Hattori rideva e la mano (che adesso è sulla pancia) non stava mai ferma. Perché Hattori è curioso. E – lo sai, vero Shinichi? – a te si è affezionato molto (troppo).

La pancia di Ran è grande.

E la mano (che non stava ferma) riposa e ascolta. E Hattori ti guarda e (senza avvisare) sorride e dice: omedetoo.

[ # Negativo 8]

Non ti ho mai visto, Kudo”

“Fare cosa?”

“Giocare a calcio”

“Mi vedrai, Hattori”. E le mani stringono e premono e stridono. E la voce (che trema) diventa sorriso (falso). Mentre un pensiero (pallone) rotola lontano. “Mi vedrai”

“Mi insegnerai?”

“Hai”

Hattori odio il calcio.

E te lo ha detto subito, ricordi Shinichi? Hattori, il calcio, proprio non lo sopporta. Perché il pallone (su giù; su giù) non è divertente; perché nel calcio si deve essere tanti. Hattori a pallone non ci ha mai voluto giocare. Perché di amici, per il pallone (calcio) non ne aveva. E (forse) non gli interessava.

Hattori, il calcio (uno stupido pallone), lo detesta.

Ma quella volta – lo sai, Shinchi – il pallone Hattori lo a preso e faceva su giù su giù (il pallone odiato) e ti diceva: non capisco cosa ci sia di divertente.

Hattori il pallone non lo può (vuole) vedere; ma per te ( ed è stata una strana bella sensazione. La ricordi, Shinichi?) lo ha preso. Perché eri triste, e dentro, nella testa, un pensiero pulsava e pulsava e tu (bambino) non lo volevi ascoltare. Perché ti eri ricordato (e faceva paura) che le cose cambiano.

Te lo ricordi bene, vero Shinichi?

La paura (tristezza) che preme e preme e Hattori che (chissà perché) così proprio non ti ci vuol vedere. Aveva paura, Hattori, mentre il pallone (cha va su giù su giù) scappava e rotolava e rimbalzava.

Hattori il calcio lo odia. Ma (baka) per te il pallone lo ha preso e tirato e ci ha giocato (per con te). E – lo sai, Shinichi – di farci brutta figura non gli interessava. Perché Hattori rideva e rideva e (dannato) ti provocava. E hai pensato che (forse) qualcosa che cambia non è sempre male.

E Hattori sorrideva e ti guardava e – te lo sei immaginato, Shinichi? – ti diceva: sai Kudo? Non lo odio più, il calcio.

[ # Negativo 9]

“Ti ricordi akatonbo,, Kudo?”

“Vuoi una komori uta, Hattori?”

“Sei stonato”. Un sorriso (vecchio) guizza pallido. Mentre il sole scende; mentre il caldo è assordante e le cicale (cri cri; cri cri) rimbombano. “E’ stato bello, Kudo”

“Sì; bello, Hattori”

“Shindoi”

“Ci vediamo domani, allora”

“Hai”

Ad Hattori piace il (tuo) violino.

E di sentirti suonare ha sempre voglia; e tu sbuffi e arricci (finto) infastidito il naso. Ma per Hattori il violino lo suon(av)i sempre. Mentre il cappellino gira e gira; mentre ti guarda e (lo sai, vero Shinichi?) sorride e ti dice: ti ammiro.

Il violino (tuo) Hattori lo ama. Anche se di musica non ne sa molto, Hattori; ma ti dice: suona.

E il violino (che ami) ad Hattori lo hai messo in mano e gli hai detto: prova. Perché Hattori rideva e ti guardava e gli occhi (bambino) ti dicevano: ammirazione.

Hattori il violino non lo sa suonare. E tu – lo ricordi, Shinichi? – gli hai dato il tuo (ed era bello, dirgli cosa fare. Era strano) e del gracchiare non ti importava nulla.

Hattori non suona, ma di cantare è bravo.

Ma quella notte no, non è stato bravo a cantare Hattori.

Mentre Ran rideva e scherzava e (forse) non ci credeva ancora, che tu fossi tornato. C’era il microfono che girava e girava, quella notte (forse era giugno forse maggio); e anche tu di ridere e scherzare (dopo tempo) ne avevi voglia.

Perché la paura (hai imparato a conoscerla bene, vero Shinichi?) era passata. Perché qualcuno ti aveva detto di cantare, anche se tu (che il violino lo sai suonare) di stonare non ne avevi voglia.

Hattori di cantare è bravo.

Ma quella notte (forse d’estate), Hattori no, non ha cantato bene.

Perché tu (che bambino non lo eri più) di cantare non sei capace – nemmeno una komori uta (da bambini). Ma Hattori rideva e rideva e cantava e stonava con (per) te. E della figura (brutta) che faceva non gli importava.

Hattori sorrideva, mentre stonava; e lui di cantare era capace. Hattori sorrideva e (complice) ti stringeva (forse la spalla forse il braccio) e diceva: okaeri, Kudo.

[Fissaggio]

Heiji Hattori.

Ventisei anni; nato a Osaka; investigatore privato.

Diagnosi: trauma toracico grave con contusione cardiaca.

Sopraggiunte complicazioni nel tempo; sviluppo miocardite.

Cura: trapianto. Urgente.

Hattori è cocciuto (e tu lo sapevi, Shinichi).

Hattori è cocciuto, e quella sera (quanti anni?) a casa del dottor Agasa c’era. Ed era arrabbiato, Hattori, e tu (falso) gli hai sorriso e gli hai detto: che ci fai qui?

Era arrabbiato, Hattori, quella sera. Perché volevi tagliarlo fuori, te lo ricordi Shinichi? Ma di restarsene fermo a guardare (te. Che ti fai ammazzare) Hattori non ne aveva voglia. E tu lo sapevi che a fargli cambiare idea non ci saresti riuscito.

Hattori ti guardava, quella sera, e di ridere e scherzare non ne aveva voglia. E l’accento diverso (era una risata) – lo hai sentito, Shinichi – ti ha fatto male. Perché Hattori ti guarda e quegli occhi (avviliti) urlavano: perché?

E tu (bambino) hai fatto l’adulto e hai detto: riguarda me.

E – te lo ricordi bene, Shinichi. – Hattori (per l’unica volta) era davvero arrabbiato con te. Mentre il cappello scivolava a terra; mentre la bocca (era un sorriso) restava senza parole; mente (lo vedevi) Hattori ti guardava e ti guardava e – lo sapevi – a quello che avevi detto non ci voleva credere.

Hattori era arrabbiato, quella sera.

Perché tu (lo sai, Shinichi) gli avevi fatto male. Perché tu (un bambino) di lui non ti fidavi. Perché Hattori a te si era affezionato tanto (troppo) e tu, dentro, la sentivi, la paura che pulsava e pulsava e ti urlava: mandalo via. Perché Hattori (che a te si era affezionato) in quel gioco (grande e brutto e pericoloso) non c’entrava.

Ma Hattori (cocciuto) non ti aveva ascoltato.

E quella sera (maledetta) con te c’era venuto; anche se gli avevi fatto male e gli avevi urlato: vattene. Perché Hattori (che, lo sapevi, dentro, aveva male) aveva scrollato le spalle e sorriso (deluso) e ti avevo detto: sei il mio migliore amico.

Hattori (quella notte vecchia e dannata) era stato ferito.

E tu – lo rivivi, vero Shinichi? – hai urlato: ie.

Perché Hattori (che ride) non c’entrava, con quel guaio. Perché Hattori (che arrabbiato non lo era più) ti guardava e sorrideva e diceva: hai visto, Kudo? Ce l’abbiamo fatta.

Ma tu – fa male, vero Shinichi? – di farcela e di aver vinto non ti interessava. Perché Hattori sorrideva ( e no, quel sorriso proprio non ti piaceva) e (cocciuto) ripeteva: adesso tornerai grande. Sarà bello, Kudo. Bello.

E tu (bambino) ripetevi: sì, bello. Mentre la voce ruzzolava; mentre la gola ti soffocava; mentre la mano stringeva e scivolava e dentro (per la prima volta. Da tanto) ti ripetevi solo: non piangere. Perché Hattori è cocciuto (lo conosci, Shinichi); Hattori è cocciuto e ha tanti progetti (illusioni) e tu (davvero) hai capito che ce lo volevi, con te, ad indagare. Ce lo volevi con te, e basta.

Hattori, quella notte, è stato ferito. Perché (cocciuto) con te ci era voluto andare (anche se lo avevi cacciato). E il suo cuore, adesso, non ce la fa più.

E ad Hattori (che – lo sai, Shinichi – è cocciuto) sono rimaste le illusioni e tanti rimpianti. Ma quando tu (arrabbiato) gli chiedi (ancora): ne valeva la pena? Hattori alza le spalle e sorride e (stanco) ti allunga la mano.

E (cocciuto) ripete (e l’accento ride): sei il mio migliore amico, Kudo.

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“Ehi, Hattori.

A te…non è mai capitato… di uccidere qualcuno?”

“Ie. Perché?”

“A me sì”

“Chi?”

“Un amico. Il migliore”

Note linguistico-culturali

  1. Watashi wa Shinichi Kudo desu: mi chiamo Shinichi Kudo.
  2. Engawa: veranda esterna di legno, coperta da un tetto spiovente che solitamente da sul giardino e corre attorno alla casa. Può essere chiusa da pesanti porte di legno o lasciata aperta, e costituisce l’ingresso principale per i visitatori, che sono tenuti a togliersi le scarpe sul gradino di pietra prospiciente.
  3. Kayaributa: zampirone giapponese usato soprattutto in estate.
  4. Sumiyoshi: ultima festa estiva del calendario celebrativo di Osaka, si svolge all’omonimo tempio fra la fine di Luglio e i primi di Agosto.
  5. Acacian: bambino.
  6. Okini: grazie nel dialetto di Osaka.
  7. Nani?: cosa?
  8.  Hai: sì.
  9. Kotatsu: tavola di legno con stufetta incorporata ricoperta da un futon, mobile invernale tradizionale giapponese.
  10. Osakaben: letteralmente, dialetto di Osaka. È una delle varie parlate diffuse nella regione del Kansai, caratterizzata da un tono musicale e scanzonato, con un accento e alcune inflessioni grammaticali diverse da quelle del giapponese standardizzato.
  11.  La festa cui si fa riferimento nel negativo 5 è quella di Tanabata matsuri o festa delle stelle, celebrata il 7 Luglio, in cui è uso appendere i propri desideri, in formato poetico, ad alcuni rami di bambù con funzione benaugurante.
  12. Aho no Kudo: stupido Kudo. Nel dialetto di Osaka a baka si sostituisce aho.
  13. Domo: grazie, in modo abbreviato e colloquiale.
  14.  Ie: no.
  15. Omedetoo: congratulazioni.
  16. Akatonbo: letteralmente Libellule rosse, è una ninna nanna giapponese.
  17. Komori uta: ninna nanna.
  18. Okeari, Kudo: bentornato, Kudo.
 
                              T=traduzione
                        Un esempio di suggestioni foniche



I titoli, si sa, sono come i simboli.
E penetrarne il significato è un po’ come metterne in evidenza le proiezioni e le valenze inconsce. Con il sottile vantaggio di riportare in superficie, oltre ad una consapevolezza lasciata latente, anche un significato che rimanda a modelli e suggestioni di varia natura. Il simbolo è il dominio della crittografia psicologica e esoterica; e il titolo è il memento, la chiave di lettura di un autore.
Possono essere elementi semplici, di derivazione naturale come i colori, gli animali o le forme; ma possono anche essere creazioni dell’uomo, come arnesi, forme geometriche o personaggi leggendari. Possono essere anche dei foni. Sì: proprio dei foni, quei suoni piccoli piccoli dati per scontati che costituiscono la base del parlare quotidiano. Anche i foni possono veicolare in modo sottile e nascosto un messaggio inconscio, una possibile modalità di lettura.
Ne è un esempio Lara Manni che, per la sua trilogia, ha scelto titoli contenenti sempre, in modo più o meno incisivo, il fono T. É stato un gioco linguistico, per sua stessa ammissione: trovare parole che avessero in chiusura sempre la lettera t. Un vezzo, si può dire; un capriccio o un gioco creativo; forse, semplicemente, una forma di firma. Così sono nati Esbat e Sopdet (adesso in libreria), e così sarà per Tanit.
C’è il divertissiment, ma c’è anche il simbolismo. Dietro il gioco fonico proposto dall’autrice si nasconde anche una piccola strizzata d’occhio al lettore che si vuole lasciar avvincere dal meccanismo del sotteso e dell’alluso. É come se quella t allitterante fra i titoli rappresentasse un pedaggio iniziatico. Ci sono molti livelli di lettura in Esbat e Sodet. L’uno legato all’altro, ma non l’uno necessario all’altro: può essere una lettura ricreative; può essere il divertimento di ricercare modelli, riusi e innovazioni apportate a vari topoi letterari. Ma è anche una lettura del fantastico, il cui accesso è nascosto e sotteso, complesso, come i piani di lettura che li caratterizzano.
E forse proprio in un retaggio genetico di suggestioni culturali e valenze simbolico-magiche affonda la fascinazione di Lara Manni per quel suono, per quell’occlusiva che è un ostacolo nella pronuncia, un muro contro cui sbattere. Non per fermarsi; per riflettere. Per rileggere il peso allusivo e mistico che il fono T ha sempre posseduto e veicolato quasi in sordina, con la discrezione di un memento forte proprio perché sussurrato di continuo.
Ma cosa rappresenta nella realtà Occidentale il suono T?
Partiamo ab ovo: dalle origini. La T è una lettera presente in tutte le lingue semitiche e indoeuropee, dal greco al latino passando per l’ebraico, l’etrusco e il russo per tacere di altre. Ritenuta portatrice di valenze migico-misteriche ed esoteriche, la T è conosciuta nella sibologia mediterranea come emblema veicolare prima ancora che in qualità di suono alfabetico. Gli antichi Egizi la conoscevano come anck e la riproducevano con un occhiello che sormontava il tratto orizzontale. Era chiamata la croce della vita e della morte o chiave dell’infinito, donata all’uomo spirituale dal Dio della conoscenza Thot. Tuttavia, come dimostrano i geroglifici e le pitture parietali che adornano templi e tombe di età faraonica, l’anck è associata anche ad altre divinità come Iside e talvolta Osiride: divinità di confine, la chiave ben rappresenta la loro condizione liminare, l’appartenere della coppia divina al contempo al mondo terrestre e a quello infero. La T è il mezzo: la chiave, appunto, per aprire ai mondi, per permettere il passaggio fra i mondi. Il passaggiocostituisce anche uno dei punti focali dei lavori di Lara Manni: sia in Esbat sia in Sopdet la fluttuazione fra mondi è il motore dell’azione, la causa prima di interferenze e dell’evoluzione narrativa. L’esbat stesso, mutuato dai rituali religiosi neopagani, incarna il cambiamento: il suo legame con le fasi lunari e il ciclo mestruale della donna, per tralasciare il significato iniziatico avvertito dagli adepti soprattutto in particolari ricorrenze, pone Esbat al centro di una visione stratificata e complessa, in cui è l’elemento femminile a dominare, nelle sue variegate declinazioni. Passaggio, dunque; ma anche evoluzione, mutamento: cambiamento. Quest’ultimo, in particolare, al centro di Sopdet. Quasi Bildungsroman sotteso nella narrazione fantastica, Sopdet diviene più sottile: il passaggio, ben presente nel romanzo attraverso i salti temporali e la deriva dei personaggi fra mondi differenti, è solo la punta visibile dell’iceberg. É passaggio anche il percorso di formazione intrapreso dagli attori in scena che siano uomini, demoni o divinità. C’è un sottile filo rosso che li lega, con la complessità elegante di una narrazione condotta con maestria, capace di concedere respiri di riflessione e serrare il ritmo all’occorrenza. Un trait d’union in cui il passaggio è solo una delle componenti, forse la più immediata, e che presenta proprio nel fonema t la sua prima strizzata d’occhio al lettore.
Proseguendo nella ricerca delle valenze magico-simboliche di t, il segno grafico possiede anche il nome di croce patibolare in quanto era proprio la forma T a caratterizzare la croce dei supplizi in età fenicia prima e romana poi. Un elemento macabro che, in apparenza, slega completamente l’elemento fonico a quello grafico. Tuttavia, anche in virtù della successiva rielaborazione cristiana della T, allo strumento di tortura si è sommata una componente allegorica: l’obiettivo raggiunto solo attraverso la sofferenza. La sofferenza è, quindi, il secondo elemento incarnato nella t ed è anche il secondo elemento che si ritrova nei romanzi di Lara Manni. Precisiamo: il termine sofferenza va inteso nel suo significato più ampio quale condizione di dolore che può riguardare il corpo e il vissuto emotivo oppure può essere espressione di una afflizione interiore più profonda, di cui può essere difficile o impossibile individuare un fondamento oggettivo. É soprattutto all’ultima definizione che si vuol far riferimento in relazione ai lavori di Lara Manni. Una componente di sofferenza fisica è presente nei romanzi, ma è soprattutto l’aspetto psicologico e intimistico a prevalere: la sofferenza è la sofferenza della crescita, delle passioni disattese, delle illusioni che si vedono sfaldare, della ricerca spasmodica e a volte frustrata, delle convinzioni costrette a cambiare. La sofferenza presente in Esbat e Sopdet è soprattutto sofferenza naturale, fase di un percorso di maturazione intrinseco alla natura in vista del raggiungimento di una maturità. Sotto quest’ottica risulta chiaro come la sofferenza simboleggi proprio la quotidianità di un percorso il cui fine è il raggiungimento di uno status altro rispetto a quello di partenza, raggiungibile solo attraverso la messa in discussione di sé e dei propri valori o certezze.
Accanto all’elemento serio, esiste anche una lettura ludica. Con il nome di tau, infatti, si designava nell’antica Mesopotamia un gioco da tavolo la cui plancia ricorda la raffigurazione grafica della lettera e considerato assieme al senet (gioco da tavola dell’antico Egitto) l’antenato del backgammon. L’elemento del gioco ricorre anche nei romanzi di Lara Manni, costituendo un’ulteriore suggestione fonica del suono t. Un po’ gioco di strategia un po’ gioco di abilità, un pizzico di gioco di ruolo e un pizzico di gioco d’azzardo Esbat, ma soprattutto Sopdet sono il prodotto di una raffinata miscela di strategie e tattiche che si ingarbuglia pagina dopo pagina, parte collaborando parte ostacolandosi. C’è il gioco primordiale, innanzitutto, l’idea di una realtà in balia di un caos primigenio che non è semplicistica confusione, ma realtà in continuo divenire formata da corpi che incorrono costantemente in accidenti, per usare una definizione aristotelica, da cui si possono generare infinite situazioni. Se sullo sfondo permane una sorta di rivisitazione di grande gioco di kiplingiana memoria, spersonalizzato ed eterno, esistono anche i singoli giocatori: ora semplici pedine ora fanti ora torri ora re (o regine). L’elasticità del ruolo svolto e la capacità di ridefinire se stessi costituiscono, infatti, la cifra dell’elaborazione dei personaggi creati da Manni. Il ruolo svolto non è sempre definito, a ben vedere, e non sempre è il personaggio a mutare il proprio ruolo con piena consapevolezza. É, anche questo, un procedimento in itinere, da rintracciare nella trilogia nella sua interezza: in Esbat il gioco delle parti è ancora embrionale. Importante; ma dai confini ben definiti, quasi netti. In prospettiva, è ancora un abbozzo, il nucleo di un’idea che in Sopdet raggiunge la sua massima espressione: da semplice gioco a vera e propria masquerade.
Ancora.
Con il nome di tau, dall’omonima diciannovesima lettera dell’alfabeto ellenico, la lettera t è stata definita anche come il Sigillo del Dio Vivente nell’Antico Testamento e dagli esoterici oppure Albero della Conoscenza, spesso raffigurata con un serpente avviluppato al braccio più lungo. Veniva tracciata sulla fronte degli iniziati e durante le consacrazioni, non solo cristiane o esoteriche, sottolineandone la valenza di simbolo universale custode inviolabile di segreti. Proprio l’elemento del serpente riveste una curiosa particolarità soprattutto in relazione al legame che da sempre il rettile stringe con l’elemento femminile. Che si tratti di Galadriel, il serpente che tento Eva nel giardino dell’Eden, di Erittonio accovacciato nello scudo di Atena o semplicemente dell’animale ctonio per eccellenza, il serpente presenta una grande ricchezza a livello simbolico e una molteplicità di significati, con adamantina, in tutte le civiltà, la valenza di essere primordiale, serbatoio pulsionale e generatore di energie. La complessità dell’approccio può essere semplificata in una divisione di massima in due elementi: come portatore di valori positivi il serpente rappresenta l’essere primordiale, il perpetuo ritorno (ouroboros), la rigenerazione raffigurata nella muta e l’energia (la Kundalini); come portatore di valori negativi incarna, invece, il tentatore, il demonio, le forze infernali, la perversità, la malignità e la seduzione.
Di serpenti in Esbat e in Sopdet non ce ne sono. Non serpenti appartenenti all’ordine dei rettili, almeno. Ma esistono serpenti nascosti: esiste un erotismo ambiguo, intenso e pericoloso, incarnato sia dalle figure demoniache sia dalla componente umana e soprattutto dalla reciproca interazione. Esistono anche altri elementi, come l’idea della rigenerazione e del ritorno, espressione simbolica della femminilità stessa. Serpente per eccellenza, sia nelle sue valenze positive sia negative, in Esbat e ancor più in Sopdet è Axieros. La dea ricreata da Lara Manni derivandola da vari mitologemi proprio del bacino mediterraneo e del vicino Oriente è dea creatrice nel senso pieno della femminilità: madre, amante, sorella, assassina, morte. É il vertice, l’inizio, il principio: lei tira le fila, lei comanda, lei seduce, provoca, affascina. E ride. E il suo aspetto sono le sue azioni. Rivisitazione moderna della grande madre è il vertice di un triangolo, con accanto i suoi paredri: Hyoutsuki e Yobai. E come potnia presenta in sè tre volti: uno celeste, uno terreno e uno ctonio. La natura triplice della dea, così com’era per le grandi divinità femminili dell’antichità e come viene ripresa in vari culti neopagani, ricorre in modo insistito anche nei romanzi di Lara Manni che, a buon diritto, si possono definire corali: un coro di voci soprattutto femminili. Dall’adolescenza alla piena maturità fino alla vecchiaia: le donne di Manni non sono statiche, ma ripropongono una galleria di ritratti delle vasi della vita, prive però di fissità o ieraticità. La loro icasticità risiede proprio nella fluttuazione e nel divenire che le caratterizza. Axieros è la prima donna, uno dei fulcri dei tre romanzi, ed è presente in scena anche nel silenzio del suo nome. La Sensei, Ivy, Misia, Adelina, solo per citare le più famose, ne sono un’ipostasi: la passione, l’adolescenza, il misterioso, la maturità sofferta. Sono Axieros in un suo elemento, e sono altro, donne con le loro angosce, i loro dubbi, le loro personalità sfaccettate un po’ ingenue un po’ astute, infantili e maliziose.
Forse quella t che ricorre nei titoli allude anche a questo: alla triplicità, ai tre volti che convenzionalmente caratterizzano i mitologemi femminili. É una concezione archetipica delle mitologie soprattutto indoeuropee, diffusa dagli studi di Robert Graves in primis e da altri fra cui Jane Ellen Harrison, A.B. Cook, George Thomson, Sir James Frazer, Robert Briffault e Jack Lindsay, per tacere di studiosi di psicologia degli archetipi come Karoly Kerèniy e C.G. Jung. Lara Manni ha pescato con eleganza e attenzione da questo amalgama variegato, in un procedimento sincretico teso a intrecciare universo orientale e occidentale. La compenetrazione, infatti, è un altro dei temi caldi che percorrono i romanzi. In Esbat vengono a intrecciarsi piani paralleli, universi paralleli per la precisione: il mondo umano e quello demoniaco. Il fatto che la collisione fra questi due mondi sfiori la sfera dell’onirico, del fantastico e della realtà contingente non è secondario, ma semplicemente connaturato all’elemento sovrannaturale che caratterizza uno dei due piani di azione. Il cortocircuito così provocato apre a infinite possibilità, ma la sfera d’azione è sempre e ancora il presente o al massimo una realtà in cui il tempo non ha valore come concetto intrinseco.
L’idea di un multiuniverso, inteso come insieme di universi coesistenti e prodotto da alcune teorie scientifiche, è presente nella letteratura fantastica come elemento topico, che però Lara Manni ha saputo rivitalizzare passando da semplice espediente d’ambientazione a vera e propria cosmogonia. L’universo così creato in Esbat non è lasciato indefinito, con vaghi retaggi e suggestioni nipponici, benché il tutto appaia legato a un piano di realtà contingente al presente. É con Sopdet, di nuovo, che la narrazione diviene più complessa e il procedimento di compenetrazione continua su più livelli: non più solo spaziale, ma anche temprale, intrecciando la narrazione e il presente del romanzo con la storia, in special modo la storia italiana. I mondi tornano in contatto come in Esbat, ma non è più uno sfiorarsi ridotto a pochi istanti elemosinati con il sangue o la fugacità incerta di un incontro onirico; in Sopdet il genere fantastico esprime la sua più primordiale e intrinseca definizione: l’anormale che irrompe nel normale, nella quotidianità. Nella storia. La compenetrazione è avviata: una fusione complessa e completa, che giungerà a piena maturazione in Tanit, proseguendo nel presente il processo di interscambio duraturo di mondi paralleli.
Compenetrazione, si è detto. Il fonema t, quindi, è portatore anche dell’idea di contatto fra realtà altrimenti destinate a rimanere separate. T come il simbolo embrionale della croce, come il disegno quasi graffiato sugli stendardi strappati di quell’iter puerorum che vive a confine fra realtà e leggenda. T come la prima croce, raffigurazione dell’incontro della realtà empirica con quella trascendentale, unione di mondo terreno e spirituale. In ambito cristologico la sua ricorrenza è molteplice, sia come elemento magico-esoterico sia quale semplice simbolo religioso: fu adottata dal profeta Ezechiele, da Sant’Antonio eremita, da Francesco d’assisi e da papa Innocenzo III, feroce sterminatore di Catari che, a loro volta riconoscevano il valore simbolico della croce. Ma è simbolo anche ricorrente in sette gnostiche, in movimenti ereticali come quello degli Spirituali e da organizzazioni poste sul confine fra ufficialità e esoterismo. Cosa c’entra l’elemento spirituale con Esbat e Sopdet? Una componente di spiritualità è rintracciabile anche nei romanzi di Lara Manni, ma non da un punto di vista accademico. Non è religione, sia chiaro: è piuttosto una riflessione sul trascendente e su alcuni stereotipi letterari legati al patrimonio culturale europeo, ma anche mondiale. Di conseguenza, la spiritualità presente nei romanzi non è classificabile, sfiorando lettura agnostica senza alcuna volontà di esprimere un giudizio al riguardo. Ci sono divinità, nei lavori di Lara Manni; ci sono uomini. E ci sono demoni.
Forse è proprio qui una delle ricchezze di questa trilogia: la scelta di indagare, di interrogarsi su un elemento, quello demoniaco, partendo dalle sue origini. In Occidente: la Grecia. Una lettura in parallelo, per certi aspetti, quella compiuta da Lara Manni, ricercando analogie e differenze che intercorrono fra daimones e youkai: due modi di percepire il sovrannaturale, quasi manifestazione animistica e intermediaria fra mondi diversi e fra loro slegati. É il concetto stesso di demone a uscire innovato, filtrato attraverso un nuovo e personale approccio, dalla trilogia di Manni: non più semplice riduzione a opposizione di un’entità luminosa, a un Bene supremo, ma qualcosa di nuovo che è anche un ritorno all’antico, alle prima percezione qual era quella di intermediari. Per Lara Manni i demoni sono a metà strada fra l’umano e il divino, partecipi dell’ordine naturale del mondo da cui derivano una sorta di indifferenza che sfiora l’apatia. Eppure sono in evoluzione, devono evolversi, proprio in virtù dell’interazione con il mondo terreno, pur restandone separati. É l’idea dell’alterità, di qualcosa di proibito e desiderato, di una fame che è conoscenza, rischio, volontà e seduzione. Soprattutto seduzione nelle sue componenti erotiche, fisiche e mentali. Una seduzione che, è bene ricordarlo, non si sviluppa solo ed esclusivamente sul piano fisico, ma investe la componente intellettuale fino ad esser vivisezionata per concentrarsi sulle sue varie sfumature: la seduzione del potere, quella dello sconosciuto e dell’ignoto, la seduzione del desiderio inteso come propria precipua volontà. E ancora: sono seduzione l’indifferenza, gli affreschi storici condotti in punta di piedi, le pennellate di mitologia e leggende. É seduzione anche l’omicidio, che sottende tutto il primo romanzo, sospeso fra ritualità e degenerazione mentale. É seduzione tutto Sopdet: un lento estenuante inconsapevole, sotto certi aspetti, gioco al corteggiamento. Ed è altro: una lusinga mentale, un desiderio che percorre come un’eco i libri e spinge a chiedersi fino dove, fino a che punto gli dei, i demoni e gli uomini possono spingersi; fino a che punto sia lecito spingersi. E interferire.
T, dunque, è il fonema di partenza per Lara Manni, il suono da cui ha preso avvio un ritornello all’apparenza solo ludico. Ma è anche la fine, l’omega della trilogia; e non solo come valenza simbolica letteraria. Il suono t è effettivamente l’ultima lettera di un alfabeto, quello ebraico, corrispondente al numero zero o all’infinito secondo una lettura che rimanda alla qabbalah e che affonda le sue motivazioni nelle origini cananee e mediorientali. Simbolo di evoluzione, come ventiduesima lettera dell’alfabeto semitico, la tau viene considerata un riferimento simbolico alla perfezione e al raggiungimento del proprio fine, al pari della lettura allegorica riservata all’omega greca. Secondo la tradizione sinaitica t è la prima lettera che si presentò a Dio quando questi era intento a creare il mondo, dicendogli: Signore dei mondi, ti piaccia servirti di me per fare la creazione del mondo, poiché io sono la lettera finale della parola Emet (=verità) che tu porti incisa del Tuo sigillo”. E a questa lettera Duo avrebbe risposto: Tu ne sei degna, ma non è opportuno che io mi serva di te per la creazione del mondo, perché tu sei destinata ad essere scolpita sulla fonte degli uomini che hanno osservato la legge dell’Aleph fino al Tau e ad essere così unita alla morte, anche perché tu formi la lettera finale della parola Met (=morte). Il gioco di parole fra emet e met non è nuovo nella letteratura, risalendo fino alla leggenda più illustre dell’automa di Praga costruito rabbi Loew. Ma di golem, o meglio di una sua miscellanea declinazione, si parla anche in Sopdet, mescolando il folklore arabo con l’assonanza terminologica e rivisitando il tutto in una chiave di dipendenza padre-figlio o creatore-creatura dal sapore fantastico e freudiano assieme.
Ma t è anche la conclusione, si è detto: il compimento. Non è probabilmente un caso che tutti i titoli della trilogia di Lara Manni terminino con il fonema che si sta analizzando e, soprattutto, che Tanit si apra e si chiusa con il medesimo. C’è l’elemento ricreativo, va bene; c’è anche una componente inconscia. Ma è proprio nelle suggestioni inespresse, di cui si prende consapevolezza solo in un secondo momento, che diparte una chiave di lettura forse un po’ arbitraria, di certo affascinante. Perché, effettivamente, l’obiettivo dei tre romanzi è quello di costituire un unicum narrativo e omogeneo, in cui la singola parte – il singolo libro – si incastra alla perfezione pur restando un’entità autonoma autoconclusiva.
T come inizio e come fine, apertura e chiusura. T come un cammino che non porta materialmente da nessuna parte, e interiormente prevede il cambiamento, una sorta di rivoluzione radicale. T come Esbat, da cui tutto inizia, e come Tanit, in cui tutto trova il suo equilibrio. Non definitivo, non inalterabile. Momentaneo. Ma equilibrio. E maturazione. Compimento, appunto.
Si potrebbe parlare ancora dei vari ritorni che la tau trova all’interno dei libri di Manni, come la ricorrenza allegorica del tre, in una concezione trinitaria che si dilata verso la ripetizione infinita. A tre sono sempre le relazioni cruciali: Axieros, Yobai e Hyoutsuki; Hyoutsuki, Sensei e Ivy; Ivy, Axieros e Sensei prima e Adelina poi; Yobai, Hyoutsuki e Ivy; Misia, Lea e Vittorua; Misia, Ivy e Johann. Solo per esplicitarne alcuni; e per tacere delle valenze sottese in questi rapporti.
Si potrebbe parlare del valore che il tre possiede in sé, quale simbolo maggiore oggetto di ampia venerazione e legato ad un valore unificante universale: è il prodotto, il parto derivato dall’unione di due elementi. É la fine di Tanit con la sua apertura, il suo continuo non ancora definito in modo chiaro. É il triangolo dai vertici caleidoscopici, in perenne sostituzione per creare una storia. Ancora: si potrebbe citare il ritorno che il tre ha nella religione Wicca, presente soprattutto in Esbat: la ritualità, i cerchi, i volti della Grande Dea adorata, le fasi lunari raffigurate nella triquetra. Si potrebbe parlare della valenza etimologica di Sopdet, la stella Sirio della costellazione del Cane Minore: il suo legame con la morte in connotazione luministica e di calore, la relazione con le Sirene e con la conoscenza e un potere che irretisce ed è seduzione che porta alla morte. Ma anche la sua lettura apotropaica, di rinascita solo attraverso la sofferenza dell’esperienza, del viaggio trascendente. Si potrebbe parlare a lungo delle suggestioni, degli omaggi, delle riscritture che sono la peculiarità nascosta e godibilissima del lavoro di Lara Manni, e ancora resterebbero zone d’ombra, passaggi mantenuti sotto silenzio.
In conclusione la t, con i suoi rimandi allegorici che intrecciano religione, cultismo ed esoterismo, è solo una chiave di lettura, una delle tante possibili. É soprattutto suggestione fonica, un eccellente esempio di associazione mentale sviluppatasi partendo da un sostrato culturale comune alla realtà occidentale. La dimensione inconscia in Lara Manni non è veicolata tramite le parole, ma le immagini, i topoi letterari e le loro riscritture. É simbolo di contenuti diluiti nei romanzi, fulcri tematici della narrazione che si esplicano solo con il tempo e la pazienza, diventando coscienti e concreti per necessità interpretativa.
La codifica simbolica, tuttavia, non è la necessità, ma solo un mezzo; uno dei tanti praticabili. Esbat, così come Sopdet e Tanit non sono testi iniziatici o misterici, ma sono permeati di un fascino sottile di misterico e trascendente. Ignorarlo non ne compromette una fruizione godibilissima; ricercarlo apre ad una lettura che dona ad un trilogia di difficile collocazione nel panorama (abusato e riduttivo) dei generi letterari un guizzo ulteriore e gli riconosce il profondo e complesso lavoro di Lara Manni, distribuito con apparente leggerezza, con un’immediatezza fresca e frizzante, dai tratti ora morbidi ora graffianti.
T come traduzione, quindi.
Traduzione di concezioni, di suggestioni foniche, di pensieri elaborati e nati da riflessioni e confronti; traduzione in romanzo di un lavoro complesso e lungo, raffinato. Traduzione di valenze antropologiche e apotropaiche, di rimandi culturali atavici e primordiali.
T come traduzione. Dal significato latino traduco come far passare, portare avanti, proseguire. Esbat, Sopdet e Tanit in fondo sono questo: il prosieguo moderno del retaggio antico-mitologico della nostra cultura, con le sue paure, le sue ombre e le sue luci, con i suoi interrogativi e le sue pulsioni. E le sue suggestioni racchiuse anche in un singolo fonema: t, l’inizio e la fine.



Mila Magnani
Febbraio 2011

 
Autore: Avalon9
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale
Personaggi Principali: Shinichi Kudo; Heiji Hattori
Altri Personaggi: Ran Mouri e Kazuha Toyama come guest star
Rating: giallo
In proposito:Fa male, vero? Non è giusto. E fa male. E, in fondo, lo sai che la colpa è tua. Solo tua. E ci preferiresti essere tu, in quel letto. E ti andrebbe bene ascoltare e ascoltare e sapere che, in fondo, quello che ti dicono sono tutte bugie. Perchè non sei stupido e di medicina, almeno un po', te ne intendi anche tu.
Un piccolo confronto fra Heiji e Shinichi: il loro rapporto, la sua evoluzione. I dubbi, le paure, le certezze. Con, incombente, un terrore che non si vuole affrontare e con cui bisogna confrontarsi ad ogni (ultima) parola.
Disclaimer: i personaggi sono di Gosho Aoyama; la situazione invece la rivendico mia^^
Cose: Dunque. La prima fan fiction che scrivo, in questo fandom. E la lascio incompiuta, in un certo senso. Perché, io per prima, so che non si capisce esattamente se il trapianto necessario a Heiji avverrà o meno o se (come dice Shinichi) morirà. Ma ho voluto così; ognuno è libero di leggere soprattutto le ultime battute come maggiormente gli aggrada: realtà, ricordo, illusione, paura, realtà traslata (o metaforica, che dir si voglia). In definitiva, nello scrivere questa fanficion, mi sono accorta che non mi interessava la conclusione in sé, ma il processo per arrivarci. Mi interessavano (stimolavano) le situazioni che potevano crearsi, i dialoghi che Shinichi e Heiji potevano fare in ospedale, in attesa del trapianto, e i collegamenti retrospettivi che avrebbero potuto creare. Adoro Heiji e Shinichi; e li adoro in coppia. Credo (temo) che il loro rapporto sia uno dei più belli, complessi e sfaccettati in cui finora mi sia imbattuta in un anime/manga. Mi sono divertita a invertite le parti, in un certo qual modo. Di solito, è Shinichi il pessimista, quello rassegnato (non in senso assoluto, sia chiaro); mentre Heiji ha dalla sua una carica di entusiasmo e vitalità splendida. Qui, invece, mi sono chiesta: e se per una volta fosse Heiji a non confidare più? In definitiva, è lui quello disteso in un letto d’ospedale; è lui il nome in una lista di mille altri. Penso che in un simile contesto Shinichi sarebbe disposto ad accantonare la logica e la razionalità per il solo intento di poterlo rasserenare almeno un po’. Nove quadretti, in tutto. Nove rimpianti o ricordi o testamenti che Heiji ha o vorrebbe lasciare. Nove piccoli spaccati senza alcuna pretesa del suo rapporto complicato con Shinichi Kudo. E sulla sua ferma decisione di essere, comunque, sempre dalla sua parte, al suo fianco.



                                    Shoin Monogatari
                                    Racconti di studio


Ehi, Hattori.

A te…non è mai capitato…di uccidere qualcuno?
(Shinichi Kudo, Volume 16 file 2)


Fa male, vero?
Non è giusto. E fa male. E, in fondo, lo sai che la colpa è tua. Solo tua. E ci preferiresti essere tu, in quel letto. E ti andrebbe bene ascoltare e ascoltare e sapere che, in fondo, quello che ti dicono sono tutte bugie. Perché non sei stupido e di medicina, almeno un po’, te ne intendi anche tu.
Ma le ascolteresti lo stesso, quelle bugie. E non ti interesserebbe perché.
Perché è bello, in fondo, ogni tanto sperarci, in qualcosa di diverso. Perché, per una volta, la verità la si può dimenticare.
Ci dovresti essere tu, in quel letto. Vero, Shinichi?
O forse non dovrebbe starci nessuno. Anche se (è vero) la colpa di tutto è stata tua. Perché ti piaceva (giusto?) giocare al detective. E alla realtà (diversa. Pericolosa) non ci pensavi. Ti divertivi; ed era come nei libri.
Ragiona; ragiona; ragiona.
Ti divertivi; e ai pericoli, a quelli veri, non ci avevi mai pensato prima (seriamente). Perché il libro lo puoi riaprire; perché il libro ricomincia e tu, di nuovo, cerchi e cerchi e cerchi. E se la soluzione scappa non importa. Tanto c’è tempo; c’è sempre tempo (nei libri).

Era un gioco, per te, Shinichi. Un gioco serio.

E in qualcosa di serio (un gioco) ci sei caduto. E no, di tempo non ce n’era più. C’era la paura, la ricordi Shinichi? Tanta paura. E c’erano le bugie.

Hai imparato a dirle bene, le bugie. Giusto, Shinichi?

E lui le ha scoperte. Ma – forse – volevi che lo sapesse, giusto? Volevi guardarlo negli occhi e potergli dire: watashi wa Shinichi Kudo desu.

E quella volta, mentre lo guardavi, mentre la voce se ne stava lì, nella gola con un vecchio respiro addormentato; mentre ti chiedevi perché e forse la risposta la sapevi, ma non ci volevi credere nemmeno tu; mentre lui aspettava e – lo sai; ne sei sicuro – ci godeva nell’averti lasciato senza parole; mentre pregavi e pensavi e sapevi che una soluzione non ce l’avevi. Quella volta (lo sai bene, Shinichi), quella volta non hai avuto paura.

Perché Hattori sorrideva (maledetto) e ti prometteva: sarà un segreto nostro.

[ # Negativo 1]

“Mi sarebbe piaciuto vederla”

“Cosa?”

“Casa tua. Alle Hawaii”

“La vedrai”. Il libro (pesante) sul comodino e quel sorriso – falso; ma per una volta si può mentire anche a lui, no?. “La vedrai” ripete (triste) convinto.

“Lo credi?”

“Hai”

Gliene hai parlato tanto (troppo).

Gliel’hai fatta immaginare, quella casa. E Hattori – lo sapevi, Shinichi – è curioso. E di vederla, quella casa, ne ha sempre avuto voglia.

Ti piaceva provocarlo, vero Shinichi?

E una sera gliene hai parlato; te ne ricordi Shinichi?

Mentre l’engawa era tiepida e il kayaributa fumava; mentre le pagine si sfogliavano e per una volta il tempo lo passavate a chiacchierare senza chiedere se c’era un perché. Aveva insistito tanto, quella volta, Hattori. Perché Sumiyoshi è bella, a Osaka. E aveva voglia (troppa. Pericolosa) di parlare con te. Hattori parlava e raccontava della sua (amata) città. Perché Hattori, con te, (lo sai, vero Shinichi?) voleva condividere.

E tu (bambino) non volevi capirla, quella condivisione. Tu (diviso) avevi paura – ricordi Shinichi? –  di dividere troppo. E di restarci intrappolato, in quelle parole.

Gli hai fatto male, quella volta. E lo volevi, giusto Shinichi?

Perché gli hai detto che Osaka era bella, ma io preferisco le Hawaii. E Hattori (te lo ricordi bene, Shinichi) ti ha fissato e le spalle (grandi; adulte) si sono strette. E hai pensato: acacian.

Ma Hattori le spalle (strette) non le alzava più e tu (adulto) ti sei sentito (per la prima volta) bambino. Perché quella volta la paura (strana) premeva e premeva, ma di scappare non lo volevi. Te lo ricordi Shinichi? E Hattori (zitto) urlava: non allontanarmi.

E mentre l’engawa (tiepida) diventava nera ti sei detto che , (forse) potevi permetterti una promessa così; potevi lasciarlo avvicinare – un po’.

E gli avevi detto che alle Hawaii avevi una casa e un giorno (forse) ci sareste potuti andare.

E Hattori (al buio) rideva e parlava e progettava; e quell’urlo (non allontanarmi) adesso diceva: oki ni.

[ # Negativo 2]

 

 

“Kudo”

“Nani?”

“Il mio cappello”. Gli occhi (stanchi) respirano nel tramonto. E la mano si allunga; e sembra rammarico. “Ricordati la visiera girata. Porta fortuna”

“Prestito, giusto?”

“Lo credi davvero?”

“Hai”

Hattori è geloso del suo cappello.

Lo sai bene, vero Shinichi? Non te l’ha mai fatto toccare. Non lo fa mai toccare a nessuno (una volta te lo ha messo in testa. Te lo ricordi, Shinchi? Ma quella era l’eccezione). E se lo tiene stretto, quel cappello, Hattori.

Ce lo aveva anche quella volta, te lo ricordi? Quando vi siete conosciuti.

E la visiera (porta fortuna) non era dietro. Perché la visiera (che è girata) Hattori la mette al posto giusto, quando ha la soluzione. E ti guarda con quel mezzo sorriso sfacciato e –chissà perché – ti viene voglia di ridere e ridere e dire: hai.

Perché con Hattori è bello giocare. E il gioco (serio) è più divertente.

Perché (Ricordi, Shinichi? Glielo hai insegnato tu) non ci sono vincitore o vinti. E alla fine, era sempre il sorriso di Hattori, la soddisfazione tua e quel cappellino che ruotava e tornava al suo (sbagliato) posto.

Non te lo ha mai fatto toccare, il suo capello, Hattori.

Ma una volta voleva regalartene uno uguale, ricordi Shinichi? Quella volta (forse a maggio, o forse era autunno) Osaka era calda e tu (bambino) il caldo non lo sopportavi più, mentre cercavi e cercavi una soluzione tanto ovvia da scappare. E Hattori un cappellino te lo aveva messo in testa e ti aveva detto: siamo una squadra.

Ma tu il cappellino(la squadra) non l’hai voluto. Perché avevi paura, ricordi Shinichi?

Perché un bambino (tu) non può difendersi, e Hattori a te ci pensava sempre (troppo). E anche la squadra (un cappellino) non la volevi. Ma la desideravi tanto, vero Shinichi?

Alzare gli occhi e vedere quel sorriso. E sapere che Hattori c’era e il suo cellulare potevi chiamarlo quando volevi.

Perché Hattori aveva detto: siamo una squadra. E io ci sarò sempre.

[ # Negativo 3]

“Davvero?

“Hai.”

“Noi due insieme”. La risata (un colpo di tosse) a riempire la stanza (stretta). “Sarebbe bello, Kudo”

“Sarà bello, Hattori”. La mano (fredda) stringe e cerca (disperata) di afferrare, trattenere, fermare. Mentre la tosse (una risata) rimbomba e rimbomba. “Sarà bello”

“Tokyo o Osaka?”

“Dove vorrai”

Hattori ha quel sogno da tanto.

Non te lo ha mai detto, quando ha iniziato a sperarci. Ma (lo sai, vero Shinichi?) quello di Hattori è un vecchio sogno. Ma lui no, non lo chiama così. Hattori dice: progetto.

Perché Hattori ne ha fatti molti, di progetti; ne ha tanti.

Ma quello l’ha pensato per (con) te.

E a te non dispiace, vero Shinichi?

Era stato un gioco, nato così. Mentre il mento (tuo) era sempre più basso e lo sconforto e la paura (hai imparato bene cos’è la paura. Giusto, Shinichi? Troppo bene) salivano e salivano. E un perché non c’era. Avevi imparato a conviverci, con quella sensazione. E avevi imparato (per proteggerti) a non illuderti.

Ma Hattori alle illusioni (sogni) ci ha sempre creduto. E della tua faccia un po’ delusa un po’ arrabbiata non ne voleva proprio sapere. E c’era il kotatsu caldo e due tazze di thè e l’occhiata (pericolosa) di Hattori; e la televisione gracchiava e gracchiava e fuori Osaka era freddo e nebbia.

E (lo avevi percepito, vero Shinichi?) c’era un’aria strana e, mentre alzavi la testa (un po’ delusa un po’ arrabbiata), avevi pensato: sicurezza.

E quel progetto (un’illusione) lo avevi ascoltato; anche se no, non ti eri dato il permesso di crederci. Ma Hattori rideva e rideva e parlava e – lo ricordi, Shinichi? – tu non capivi se scherzasse o se dicesse sul serio. Ma Hattori te lo aveva detto (pericoloso) e in quel progetto (un’illusione) ci crede(va) davvero.

E (in fondo) volevi crederci anche tu, vero Shinichi? E litigare per l’ordine dei nomi sull’insegna, e giocare a rincorrere le soluzioni e sfidarsi anche se sapevi che, in fondo, il traguardo lo tagliavate sempre assieme. E discutere di libri e di casi e poter costruire di nuovo qualcosa.

Lo desideravi, vero Shinichi? E a Hattosi hai detto: hai (anche se di illuderti non ne volevi sapere).

E Hattori sorrideva e ripeteva: la nostra agenzia.

[ # Negativo 4]

Non lo detestavi, Kudo?”

“Cosa, Hattori?”

“Ellery Queen”

“Infatti”. Il sorriso (malinconia) si nasconde dietro il libro, mentre gli occhi (addormentati; ma non importa. Resta ancora un po’) si stringono strizzano. “Ma a te piace, no?”

“Aho no Kudo”

“Domo. Vado avanti a leggere?”

“Hai”

L’accento di Hattori è diverso.

Sembra una risata. E ad Hattori ridere piace(va); te lo ricordi, Shinichi? Hattori (l’accento) è diverso. E tu – lo hai sentito, vero Shinichi? – ci vai d’accordo.

Perché con la risata (Hattori) ci puoi parlare e non ridacchia e non sbuffa e non si arrabbia; con Hattori (ridendo) fai discorsi seri.

Hattori serio non lo sembra mai, ma tu la sai, Shinichi, la differenza. Perché non è difficile, alla fine, parlare con Hattori. E è bello (ma non glielo dici mai, vero Shinichi?).

E ad Hattori piace parlare con te. Perché si diverte – lo sai – con il suo dialetto diverso. E le risate (osakaben) continuano e continuano.

Hattori rideva anche quella notte. Mentre i petali scendevano; mentre il futon (caldo) era stretto; mentre le parole erano sussurri. Hattori parlava e raccontava e si confidava e sembrava che fosse sempre stato così. Quella notte (era aprile), mentre la maglia di Hattori era larga; mentre gli occhiali erano dimenticati sotto un cappellino. Quella notte – lo ricordi bene, Shinichi – Hattori aveva riso (senza le parole) e tu (bambino) avevi riso con lui.

Perché Hattori ti punzecchiava e ti sfidava e ti provocava. Ma la risata (un accento) ti sussurrava: fidati.

 

[ # Negativo 5]

 

 

“Ehi, Kudo”

“Cosa c’è?”

“Kazuha”. Il respiro (pesante) rimbomba. Mentre il sole si taglia nelle tapparelle; mentre gli occhi iniziano (maledetti) a sfumare. “Avrei voluto sposarla”

“La sposerai”. E la voce è un nodo; e resta a gracchiare in gola. Anche se ripete e ripete e ripete: “La sposerai”

“Mi farai da testimone?”

“Certo”

Toyama viene ogni giorno.

Si siede, e parla. Parla e parla e racconta. E a te fa rabbia, vero Shinichi? E fa male. Perché Toyama parla e parla, ma – lo sai – vorrebbe piangere.

E la colpa è tua, giusto Shinichi? Anche se non te lo ha mai detto. Anche se Toyama sorride e parla e a rinfacciarti qualcosa (ma ha ragione, Shinichi) non ci pensa nemmeno.

Hattori è contento, quando viene Toyamasan. E parla e ride e dice (finge): sto bene. Perché – lo hai capito subito, vero Shinichi? – Toyama è preziosa per Hattori.

E Hattori a te (ed eri un bambino) lo aveva confidato.

E c’erano i fuochi d’artificio e una granita in mano; e Hattori apriva la bocca e la chiudeva. E tu (che avevi capito) avevi voglia di dirgli solo: va’ da lei.

Ma c’era il bambù e striscioline di carta e Hattori girava e rigirava la granita e ti guardava (supplicava). Perché aveva paura, Hattori; e lo diceva a un bambino (a te)

Hattori è contento, quando viene Toyama. Ma tu no, vero Shinichi?

Perché lo sai che Toyama è arrabbiata. E la sa anche Hattori, ma sorride. Perché Toyama (che è arrabbiata) viene ogni giorno. E gli dice: guarisci.

Hattori te la ha detto, Shinchi, che Toyama è speciale. Ed era estate e rideva e balbettava e ti aveva detto: dammi un consiglio.

E tu (bambino) gli avevi detto: perché? E della sua risposta – lo ricordi, Shinchi? – avevi (troppa) paura. Perché Hattori scrollava le spalle e ridacchiava; perché Hattori a te i consigli li chiedeva sempre; perché Hattori voleva (sapeva) qualcosa che ti terrorizzava.

Ma un bambino (tu) avevi paura. Anche se Hattori sorrideva e ti guardava e (maledetto) ti diceva: perché sei il mio migliore amico.

[ # Negativo 6]

Non hai da fare, Kudo?”

“Se ti do fastidio, me ne vado”

“Davvero lo faresti?”, Il sorriso (pallido) si accenna; mentre la voce accarezza (forse divertita) una vecchia (complice) sensazione.

“Hai” - Ie.

“Sei sempre stato un pessimo bugiardo.”

“Lo so”

Con Hattori le bugie non funzionano.

Lo sai bene, vero Shinichi? Non sei mai riuscito a convincerlo di una, delle tue bugie – ma eri contento così, ricordi Shinichi?

Con Hattori le bugie (che dovrebbero funzionare) sono inutili. Perché lo aveva intuito subito, Hattori, che qualcosa non era normale. Perché un bambino (tu) non piangeva e non si spaventava; perché tu (un bambino) cercavi e chiedevi e lo guardavi e sembravi dirgli: l’hai trovata, la soluzione?

Con Hattori le bugie non sono servite – mai.

Ma lo hai costretto a dirne tante, di bugie, vero Shinichi? E – lo sapevi – ad Hattori le bugie sono sempre andate strette. I segreti , li sa mantenere, Hattori. Ma le bugie gli restano incastrate nella gola. E tu lo sapevi, vero Shinichi?

Ma Hattori le bugie (e no, non gli piacevano) per te le diceva. E ridacchiava e improvvisava e pensava e inventava. Perché te lo aveva promesso, Shinichi. Mentre la luce si rompeva sul finestrino; mentre la voglia di ridere e di chiedere e la sorpresa erano un mezzo sorriso e quegli occhi (dannati) ti studiavano. Te lo aveva detto, Hattori, e no, non era stata una bugia (perché ad Hattori – lo sai – le bugie non piacciono): non lo dirò a nessuno.

Tu eri bravo, con le bugie, Shinichi. Ma ad Hattori ci hai rinunciato subito, a dirle.

Perché Hattori, le bugie, le schiacciava subito. E, in fondo, avevi bisogno che qualcuno (lui) ti ricordasse chi sei. E lui (non qualcuno) il segreto lo aveva tenuto (anche se le bugie no, non gli piacciono) e ti chiamava e sussurrava: Kudo.

Le bugie – lo ricordi Shinichi? – avevi imparato a dirle bene; anche se a Hattori non piacevano. Ma con Hattori le bugie erano pessime.

Perché (mentre il viaggio scorreva) rideva e ripeteva: non lo dirò a nessuno.

[ # Negativo 7]

“Per quando, Kudo?”

“Settembre”

“È un bel mese.” Il respiro (vecchio) si affievolisce; mentre la mano ricade; mentre il corpo (addormentato) resta immobile. “Vorrei vederlo”

“Lo vedrai. Al tempio”

“Al tempio”

“Hai”

La pancia di Ran è grande.

Mentre la mano (pallida) trema un po’; mentre negli occhi (vuoti) c’è di nuovo qualcosa. Mentre Ran stringe e accarezza quella mano e Hattori di ridere, forse, ne ha di nuovo voglia.

Hattori era contento, ricordi Shinichi?

E c’era il mare in lontananza e il freddo nelle ossa e quel tuo mezzo (fastidioso) sorriso. E avevi voglia di ridere, ricordi Shinichi?

Avevi voglia di ridere e urlare; perché Hattori era venuto – senza avvisare.

Perché Hattori era venuto, quando qualcuno glielo aveva detto. E aveva sorriso e aveva riso e ti aveva stretto stretto – ed era bello, vero Shinichi? – e aveva detto: omedetoo.

Hattori era venuto, e adesso, sulla pancia (grande) la mano la teneva. E cercava e rincorreva e sentiva quel qualcosa muoversi e colpire e fare tutum tutum.

Hattori era venuto, e ti aveva rimproverato e preso in giro. Perché tu (chissà perché) non lo avevi chiamato. Perché quel segreto (che non fa paura) a lui non lo avevi confidato – non subito.

Ma Hattori era venuto e ti aveva detto (pericoloso): ci sarò anch’io, al tempio.

E – la ricordi, Shinichi? Quella bella sensazione – avevi pensato che , ce lo volevi al tempio Hattori.

Perché Hattori rideva e ripeteva: omedetoo.

E faceva progetti, Hattori (che no, non erano illusioni. Ancora). E parlava e parlava e contava (uno, due, tre) i mesi sulle dita. E sbagliava e rideva e ricominciava. Perché, in fondo, davvero non gli interessava, il mese.

Hattori rideva e la mano (che adesso è sulla pancia) non stava mai ferma. Perché Hattori è curioso. E – lo sai, vero Shinichi? – a te si è affezionato molto (troppo).

La pancia di Ran è grande.

E la mano (che non stava ferma) riposa e ascolta. E Hattori ti guarda e (senza avvisare) sorride e dice: omedetoo.

[ # Negativo 8]

Non ti ho mai visto, Kudo”

“Fare cosa?”

“Giocare a calcio”

“Mi vedrai, Hattori”. E le mani stringono e premono e stridono. E la voce (che trema) diventa sorriso (falso). Mentre un pensiero (pallone) rotola lontano. “Mi vedrai”

“Mi insegnerai?”

“Hai”

Hattori odio il calcio.

E te lo ha detto subito, ricordi Shinichi? Hattori, il calcio, proprio non lo sopporta. Perché il pallone (su giù; su giù) non è divertente; perché nel calcio si deve essere tanti. Hattori a pallone non ci ha mai voluto giocare. Perché di amici, per il pallone (calcio) non ne aveva. E (forse) non gli interessava.

Hattori, il calcio (uno stupido pallone), lo detesta.

Ma quella volta – lo sai, Shinchi – il pallone Hattori lo a preso e faceva su giù su giù (il pallone odiato) e ti diceva: non capisco cosa ci sia di divertente.

Hattori il pallone non lo può (vuole) vedere; ma per te ( ed è stata una strana bella sensazione. La ricordi, Shinichi?) lo ha preso. Perché eri triste, e dentro, nella testa, un pensiero pulsava e pulsava e tu (bambino) non lo volevi ascoltare. Perché ti eri ricordato (e faceva paura) che le cose cambiano.

Te lo ricordi bene, vero Shinichi?

La paura (tristezza) che preme e preme e Hattori che (chissà perché) così proprio non ti ci vuol vedere. Aveva paura, Hattori, mentre il pallone (cha va su giù su giù) scappava e rotolava e rimbalzava.

Hattori il calcio lo odia. Ma (baka) per te il pallone lo ha preso e tirato e ci ha giocato (per con te). E – lo sai, Shinichi – di farci brutta figura non gli interessava. Perché Hattori rideva e rideva e (dannato) ti provocava. E hai pensato che (forse) qualcosa che cambia non è sempre male.

E Hattori sorrideva e ti guardava e – te lo sei immaginato, Shinichi? – ti diceva: sai Kudo? Non lo odio più, il calcio.

[ # Negativo 9]

“Ti ricordi akatonbo,, Kudo?”

“Vuoi una komori uta, Hattori?”

“Sei stonato”. Un sorriso (vecchio) guizza pallido. Mentre il sole scende; mentre il caldo è assordante e le cicale (cri cri; cri cri) rimbombano. “E’ stato bello, Kudo”

“Sì; bello, Hattori”

“Shindoi”

“Ci vediamo domani, allora”

“Hai”

Ad Hattori piace il (tuo) violino.

E di sentirti suonare ha sempre voglia; e tu sbuffi e arricci (finto) infastidito il naso. Ma per Hattori il violino lo suon(av)i sempre. Mentre il cappellino gira e gira; mentre ti guarda e (lo sai, vero Shinichi?) sorride e ti dice: ti ammiro.

Il violino (tuo) Hattori lo ama. Anche se di musica non ne sa molto, Hattori; ma ti dice: suona.

E il violino (che ami) ad Hattori lo hai messo in mano e gli hai detto: prova. Perché Hattori rideva e ti guardava e gli occhi (bambino) ti dicevano: ammirazione.

Hattori il violino non lo sa suonare. E tu – lo ricordi, Shinichi? – gli hai dato il tuo (ed era bello, dirgli cosa fare. Era strano) e del gracchiare non ti importava nulla.

Hattori non suona, ma di cantare è bravo.

Ma quella notte no, non è stato bravo a cantare Hattori.

Mentre Ran rideva e scherzava e (forse) non ci credeva ancora, che tu fossi tornato. C’era il microfono che girava e girava, quella notte (forse era giugno forse maggio); e anche tu di ridere e scherzare (dopo tempo) ne avevi voglia.

Perché la paura (hai imparato a conoscerla bene, vero Shinichi?) era passata. Perché qualcuno ti aveva detto di cantare, anche se tu (che il violino lo sai suonare) di stonare non ne avevi voglia.

Hattori di cantare è bravo.

Ma quella notte (forse d’estate), Hattori no, non ha cantato bene.

Perché tu (che bambino non lo eri più) di cantare non sei capace – nemmeno una komori uta (da bambini). Ma Hattori rideva e rideva e cantava e stonava con (per) te. E della figura (brutta) che faceva non gli importava.

Hattori sorrideva, mentre stonava; e lui di cantare era capace. Hattori sorrideva e (complice) ti stringeva (forse la spalla forse il braccio) e diceva: okaeri, Kudo.

[Fissaggio]

Heiji Hattori.

Ventisei anni; nato a Osaka; investigatore privato.

Diagnosi: trauma toracico grave con contusione cardiaca.

Sopraggiunte complicazioni nel tempo; sviluppo miocardite.

Cura: trapianto. Urgente.

Hattori è cocciuto (e tu lo sapevi, Shinichi).

Hattori è cocciuto, e quella sera (quanti anni?) a casa del dottor Agasa c’era. Ed era arrabbiato, Hattori, e tu (falso) gli hai sorriso e gli hai detto: che ci fai qui?

Era arrabbiato, Hattori, quella sera. Perché volevi tagliarlo fuori, te lo ricordi Shinichi? Ma di restarsene fermo a guardare (te. Che ti fai ammazzare) Hattori non ne aveva voglia. E tu lo sapevi che a fargli cambiare idea non ci saresti riuscito.

Hattori ti guardava, quella sera, e di ridere e scherzare non ne aveva voglia. E l’accento diverso (era una risata) – lo hai sentito, Shinichi – ti ha fatto male. Perché Hattori ti guarda e quegli occhi (avviliti) urlavano: perché?

E tu (bambino) hai fatto l’adulto e hai detto: riguarda me.

E – te lo ricordi bene, Shinichi. – Hattori (per l’unica volta) era davvero arrabbiato con te. Mentre il cappello scivolava a terra; mentre la bocca (era un sorriso) restava senza parole; mente (lo vedevi) Hattori ti guardava e ti guardava e – lo sapevi – a quello che avevi detto non ci voleva credere.

Hattori era arrabbiato, quella sera.

Perché tu (lo sai, Shinichi) gli avevi fatto male. Perché tu (un bambino) di lui non ti fidavi. Perché Hattori a te si era affezionato tanto (troppo) e tu, dentro, la sentivi, la paura che pulsava e pulsava e ti urlava: mandalo via. Perché Hattori (che a te si era affezionato) in quel gioco (grande e brutto e pericoloso) non c’entrava.

Ma Hattori (cocciuto) non ti aveva ascoltato.

E quella sera (maledetta) con te c’era venuto; anche se gli avevi fatto male e gli avevi urlato: vattene. Perché Hattori (che, lo sapevi, dentro, aveva male) aveva scrollato le spalle e sorriso (deluso) e ti avevo detto: sei il mio migliore amico.

Hattori (quella notte vecchia e dannata) era stato ferito.

E tu – lo rivivi, vero Shinichi? – hai urlato: ie.

Perché Hattori (che ride) non c’entrava, con quel guaio. Perché Hattori (che arrabbiato non lo era più) ti guardava e sorrideva e diceva: hai visto, Kudo? Ce l’abbiamo fatta.

Ma tu – fa male, vero Shinichi? – di farcela e di aver vinto non ti interessava. Perché Hattori sorrideva ( e no, quel sorriso proprio non ti piaceva) e (cocciuto) ripeteva: adesso tornerai grande. Sarà bello, Kudo. Bello.

E tu (bambino) ripetevi: sì, bello. Mentre la voce ruzzolava; mentre la gola ti soffocava; mentre la mano stringeva e scivolava e dentro (per la prima volta. Da tanto) ti ripetevi solo: non piangere. Perché Hattori è cocciuto (lo conosci, Shinichi); Hattori è cocciuto e ha tanti progetti (illusioni) e tu (davvero) hai capito che ce lo volevi, con te, ad indagare. Ce lo volevi con te, e basta.

Hattori, quella notte, è stato ferito. Perché (cocciuto) con te ci era voluto andare (anche se lo avevi cacciato). E il suo cuore, adesso, non ce la fa più.

E ad Hattori (che – lo sai, Shinichi – è cocciuto) sono rimaste le illusioni e tanti rimpianti. Ma quando tu (arrabbiato) gli chiedi (ancora): ne valeva la pena? Hattori alza le spalle e sorride e (stanco) ti allunga la mano.

E (cocciuto) ripete (e l’accento ride): sei il mio migliore amico, Kudo.

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“Ehi, Hattori.

A te…non è mai capitato… di uccidere qualcuno?”

“Ie. Perché?”

“A me sì”

“Chi?”

“Un amico. Il migliore”

Note linguistico-culturali

  1. Watashi wa Shinichi Kudo desu: mi chiamo Shinichi Kudo.
  2. Engawa: veranda esterna di legno, coperta da un tetto spiovente che solitamente da sul giardino e corre attorno alla casa. Può essere chiusa da pesanti porte di legno o lasciata aperta, e costituisce l’ingresso principale per i visitatori, che sono tenuti a togliersi le scarpe sul gradino di pietra prospiciente.
  3. Kayaributa: zampirone giapponese usato soprattutto in estate.
  4. Sumiyoshi: ultima festa estiva del calendario celebrativo di Osaka, si svolge all’omonimo tempio fra la fine di Luglio e i primi di Agosto.
  5. Acacian: bambino.
  6. Okini: grazie nel dialetto di Osaka.
  7. Nani?: cosa?
  8.  Hai: sì.
  9. Kotatsu: tavola di legno con stufetta incorporata ricoperta da un futon, mobile invernale tradizionale giapponese.
  10. Osakaben: letteralmente, dialetto di Osaka. È una delle varie parlate diffuse nella regione del Kansai, caratterizzata da un tono musicale e scanzonato, con un accento e alcune inflessioni grammaticali diverse da quelle del giapponese standardizzato.
  11.  La festa cui si fa riferimento nel negativo 5 è quella di Tanabata matsuri o festa delle stelle, celebrata il 7 Luglio, in cui è uso appendere i propri desideri, in formato poetico, ad alcuni rami di bambù con funzione benaugurante.
  12. Aho no Kudo: stupido Kudo. Nel dialetto di Osaka a baka si sostituisce aho.
  13. Domo: grazie, in modo abbreviato e colloquiale.
  14.  Ie: no.
  15. Omedetoo: congratulazioni.
  16. Akatonbo: letteralmente Libellule rosse, è una ninna nanna giapponese.
  17. Komori uta: ninna nanna.
  18. Okeari, Kudo: bentornato, Kudo.
[Concludendo]

Dunque.

La prima fan fiction che scrivo, in questo fandom. E la lascio incompiuta, in un certo senso. Perché, io per prima, so che non si capisce esattamente se il trapianto necessario a Heiji avverrà o meno o se (come dice Shinichi) morirà.

Ma ho voluto così; ognuno è libero di leggere soprattutto le ultime battute come maggiormente gli aggrada: realtà, ricordo, illusione, paura, realtà traslata (o metaforica, che dir si voglia).

In definitiva, nello scrivere questa fanficion, mi sono accorta che non mi interessava la conclusione in sé, ma il processo per arrivarci. Mi interessavano (stimolavano) le situazioni che potevano crearsi, i dialoghi che Shinichi e Heiji potevano fare in ospedale, in attesa del trapianto, e i collegamenti retrospettivi che avrebbero potuto creare.

Adoro Heiji e Shinichi; e li adoro in coppia. Credo (temo) che il loro rapporto sia uno dei più belli, complessi e sfaccettati in cui finora mi sia imbattuta in un anime/manga.

Mi sono divertita a invertite le parti, in un certo qual modo. Di solito, è Shinichi il pessimista, quello rassegnato (non in senso assoluto, sia chiaro); mentre Heiji ha dalla sua una carica di entusiasmo e vitalità splendida. Qui, invece, mi sono chiesta: e se per una volta fosse Heiji a non confidare più? In definitiva, è lui quello disteso in un letto d’ospedale; è lui il nome in una lista di mille altri. Penso che in un simile contesto Shinichi sarebbe disposto ad accantonare la logica e la razionalità per il solo intento di poterlo rasserenare almeno un po’.

Nove quadretti, in tutto. Nove rimpianti o ricordi o testamenti che Heiji ha o vorrebbe lasciare. Nove piccoli spaccati senza alcuna pretesa del suo rapporto complicato con Shinichi Kudo. E sulla sua ferma decisione di essere, comunque, sempre dalla sua parte, al suo fianco.

Senza pretese; alla vostra gentilezza.

 
# Diamante

                                                                              [Il vento accompagna.
                                                                                       Costantemente.]

Raddrizza la schiena.
Il passato non interessa. Ritorna ad essere quello che è stato.
Da sempre.

                                                                                              [Per sempre]

Continua.
Un tenue bagliore a circondarlo. Socchiude gli occhi.
Resta nel vento.
Nell’eterno.

                        Non interessa.
                                   Non attrae.

                                                                           [Hai occhi da predatore.
                                                                                        E allora riprendi.
                                                                                                        Caccia]

Sesshomaru volse le spalle.
Non calcola il tempo. È superfluo. Sciocco.
Quel luogo o un altro. Non interessa.

                                                                                        Naraku è morto.
                                                                                              Secoli prima.
                                                                                             Istanti. Attimi.

Naraku è morto.
Suo fratello è morto; e la miko con lui.
Anche la bambina che stava con lui.

[Sei predatore.
Lucente e terribile.
Tagli sottile]

                             Continua a camminare nel tempo.

 
Immaginiamo che la parola fine sia stata scritta. Dall'autrice del manga in persona. Immaginiamo anche che il finale sia in linea con la tradizione: i buoni vincono, il male viene sconfitto...[1]

 

Una premessa. Accattivante. Non tanto perché prende avvio dal topos consolidato dell’happy ending, ma perché coinvolge in prima persona, nelle sue trame, l’autrice stessa del manga, la Sensei.
Fin dalle prime parole, Lara Manni, autrice esordiente con Esbat, crea un orizzonte d’attesa che si adatta egregiamente alle normali aspettative di lettrici e lettori: il bene vince, il male è sconfitto. Tutto regolare. Tutto normale. Invece, bastano pochi paragrafi, pochi capitoli, per respirare un’atmosfera che nulla ha di ovvio e scontato. La storia, con tinte cupe e drammatiche, capace però di aprirsi in respiri ampi che alleggeriscono la tensione salvo poi ridiscendere a picco nella suspance, cambia continuamente in una trama lenta e articolata su molteplici piani spazio-temporali e narrativi.
I personaggi si susseguono, mai semplici macchiette, sempre comparse definite e precise, tagliate nell’inchiostro anche se occupano la scena solo per poche battute, se si risolvono in apparizioni fugaci. Accanto ai personaggi, ambientazioni che sono specchio del pensiero, dell’interiorità, di un mondo mentale che muta in relazione al suo ideatore. Al demiurgo che, di volta in volta, appare sulla scena.
Approcciarsi a Esbat è affatto facile, perché c’è sempre il rischio di traviare, di ignorare un particolare, un dettaglio altrimenti fondamentale. Qui più che altrove, dove allusioni, omaggi e riferimenti seminati con maestria costituiscono la fitta trama su cui si innesta una storia che oltrepassa le righe.
Esbat non può definirsi semplicemente una storia. Troppo complessa la trama che si viene a creare, arricchita di costanti riferimenti al mondo cinematografico, letterario e neopagano. Appare piuttosto come un viaggio, la riflessione personale, ma mai esplicita, di Lara Manni sul mondo fantastico, sul web e sulla realtà quotidiana e su un loro possibile intersecarsi.
Con ordine.
Esbat prende avvio dalla fine. Dal momento esatto in cui il manga è concluso, con soddisfazione della mangaka e scontento da parte di un personaggio. Perché è proprio l’happy ending la causa scatenante della narrazione. La felice conclusione con il Demone che si ravvede e arriva a sposare la bimba, ormai cresciuta, che ha allevato, disgusta in primo luogo il diretto interessato. Perché Hyoutsuki-sama, come avrà modo lui stesso di spiegare nel corso della narrazione, non è semplicemente un personaggio di fantasia. È, esiste, e abita in un altro mondo, un altro universo che Lara Manni non definisce perfettamente, lasciando il sapore dello sfumato, dell’ambiguo.
Sarà il desiderio di rivalsa, di vendetta, a spingere Hyoutsuki-sama a praticare un esbat [2] ed entrare nel mondo umano. Per riprendere la sua stessa dignità; venendo, suo malgrado, coinvolto in un gioco ancora più grande, di cui la mangaka era solo una delle innumerevoli, infinite pedine esistenti. Un gioco creato e portato avanti da un Dea, Axieros, e cui partecipa anche, sebbene non sempre sia chiarissimo con che ruolo, il nemico per antonomasia nel manga: Yobai. Novello paredro, pur non venendo cementato in questo ruolo, Yobai è l’ideale traid d’ounion del romanzo, con la sua esistenza spezzata e in bilico fra due mondi.
Di capitolo in capitolo, la storia intreccia il mondo sovrannaturale dei demoni con quello umano del presente, coinvolgendo in un complesso gioco a incastro personaggi che altrimenti non avrebbero altro in comune. E si passa dal mondo nipponico a quello quotidiano italiano, con il coinvolgimento diretto nella narrazione di elementi tecnologici quali messenger o forum, per poi riappuntare l’attenzione sul processo magico per eccellenza della creazione attraverso il disegno, rinnovando il topos della scrittura quale fonte di realtà.
Accanto alla Sensei e al suo personale rapporto con Hyoutsuki-sama, un rapporto che scorre sul filo dell’autodistruzione e del desiderio morboso, si delineano altri rapporti, nuovi collegamenti e nuovi personaggi che convergono sempre, in un modo o nell’altro, sulla figura del Demone. Il menage a trois che si delinea sullo sfondo fra Houtsuki-sama, Yobai e la Sensei/Dea vede presto, infatti, l’aggiunta di un quarto “membro” capace di destabilizzare gli equilibri (labili) che si stavano delineando: Ivy. Una ragazzina che irrompe sulla scena con la sua carica di incertezza, incomprensioni e con un potere troppo grande e di cui non ha ancora coscienza.
Ma il pregio di Esbat non risiede unicamente in una trama ricca e complessa.
Oltre ad uno stile di scrittura fluido e scorrevole, in cui l’impiego di parentesi, corsivi e il passaggio senza segni evidenti dal discorso indiretto al discorso indiretto libero contribuiscono a creare empatia nel lettore, punto di forza è l’approfondimento psicologico che Lara Manni riserva ad ogni singolo personaggio introdotto, dai protagonisti alle apparizioni fugaci. La mancanza di descrizioni fisiche o la loro rapidità là dove sono presenti non costituiscono rimpianto; al contrario, contribuiscono a far emergere dalla sola personalità luci e ombre dei vari personaggi.
Se una particolare attenzione è riservata alla complessità delle figure di Yobai e Houtsuki-sama, analizzate nelle loro affinità e diversità, scavando nella mente mettendone in luce virtù, difetti, caratteristiche e manie, allo stesso modo risulta estremamente godibile e interessante l’analisi psicologia che è offerta soprattutto della Sensei e Ivy. La donna e la ragazza, la passione e l’amore infantile: due figure femminili che assommano in sé gli elementi salienti della donna per antonomasia, fissandole in due istanti della vita (la giovinezza e la vecchiaia) senza tuttavia cristallizzarle. L’evoluzione è presente in una storia in cui lo scorrere del tempo è relegato in fondo e si affida unicamente al mutamente personale dovuto a convenienza, progetti o esperienze vissute.
Esbat scorre in modo altalenante, con accelerate adrenaliniche che si spezzano nel momento clou e spaccati mentali che dilatano la narrazione permettendo il defilarsi di un orizzonte d’attesa che, a sorpresa, può essere facilmente sconvolto.
Non semplicemente storia d’amore o di ricatto, Esbat si svela come il confronto di due (o più) diversi modi di sentire e percepire il mondo, i valori e gli elementi che costituiscono quello che viene chiamato orgoglio. Una complessità di sentire sottolineata dai frequenti cambi di punto di vista, dall’impiego di una narrazione che ora prosegue col lettore ora si concede ellissi, analessi o prolessi ed è inframmezzata da citazioni più o meno velate all’arte e a libri, film, autori antichi o contemporanei, elementi religiosi espresse in modo indiretto o con una nomenclatura tecnica che non stona comunque, trovando una sua armonica collocazione nel tutto.
Un romanzo adulto, in conclusione.
Il prodotto di una lunga, attenta rielaborazione di riflessione e conoscenze, ricamato dal gusto per una narrazione di tipo kinghiano (frequenti i riferimenti all’autore americano che l’autrice adora) e capace di interessare non necessariamente solo gli appassionati del fantasy per il coinvolgimento di varie dimensioni, ma anche per il lungo e complesso lavoro fatto sull’analisi psicologica di demoni e creature altre rispetto all’uomo.

Note
[1] Dall’introduzione alla storia stessa
[2] Esbat: pratica religiosa neopagana collegata al ciclo lunare

 
Intervista a Lara Manni


Trentadue anni, romana, appassionata di Stephen King, di fantasy e di horror: Lara Manni è l’autrice di Esbat, libro frutto dell’evoluzione e dello sviluppo autonomo e accurato di una storia nata come fan fiction, ovvero come storia liberamente ispirata, nel caso, al manga Inuyasha.

Pubblicato da Feltrinelli, primo capitolo di una trilogia, Esbat racconta l’incontro fra una donna –Sensei- osannata dei fans e sposata con il suo lavoro, e quello che crede il frutto della sua fantasia, un demone: Hyoutsuki-sama. Accanto al loro rapporto complesso e distruttivo, l’universo giovanile con le sue insicurezze e le sue manie, il mondo dell’occulto e dell’esoterismo, e l’incombere di una Dea si intrecciano con fili sottili e, a volte, inaspettati.


1. Partiamo ab ovo. So che non ama veder comparare il libro e la fan fiction, perché, effettivamente, sono due realtà diverse, ma la curiosità c’è. Per cui, cosa L’ha spinta a cimentarsi con il fandom del manga Inuyasha?
Soltanto la curiosità e la voglia di giocare. Quel manga, in particolare, mi colpiva per l’ampiezza del progetto: nonché per l’ambizione, visto che chiama in causa enormi porzioni della mitologia giapponese. D’altra parte, giunto a metà, cominciava a mostrare le caratteristiche di non pochi altri manga (e anche di molta narrativa): edulcorare i personaggi sovrannaturali e umanizzarli. E questo non mi convinceva. Così, ho cominciato a scrivere quello che era un semplice what if? Cosa succederebbe se un personaggio entrasse dalla finestra dell’autrice? Però mi ha preso la mano dopo cinque capitoli.

2. Sul web, la pubblicazione procedeva con un ritmo quasi settimanale. Come per un feuilletton di ottocentesca memoria. Ma qual è il perché di questa scelta che è, soprattutto, un impegno e comporta un ritmo di lavoro alquanto serrato. Soprattutto considerato il fatto che, nel mondo delle fan fiction, mancano totalmente scadenze.
Questo è il mio modo di scrivere, in effetti. Quando, pochi mesi fa, mi sono cimentata con il mio primo testo non destinato al web (un racconto), ho utilizzato la stessa modalità. In caso contrario, temo di vedermi sfuggire di mano la storia: temo, anzi, di raffreddarla. Scrivo sempre, in prima stesura, di pancia, alternando ricerche e narrazione. Il che significa che il lavoro di revisione diventa estremamente lungo. Ma va benissimo.

3. Esbat viene definito, sull’aletta, come un horror ambientato fra Italia e Giappone. Se è innegabile la presenza di morti e la descrizione anche precisa di certe scene di omicidio, è altresì vero che il Suo libro non scade mai nello splatter. A tratti, risulta quasi un’indagine psicologica.
Perché, fra i vari generi esistenti, proprio horror? Non poteva essere fantasy?
Perché l’horror, secondo me, è il genere che permette di esplorare the dead zone, la zona oscura tra i mondi. L’identificazione tra horror e splatter è molto italiana, almeno a mio modo di vedere, e si deve al fatto che molti autori, specie negli anni passati, hanno perseguito questa logica: molto sangue uguale molta paura. Credo invece che l’horror possa e debba scavare proprio nella psicologia dei personaggi più che descrivere il coperchio della tomba che si solleva nella notte.

4. Dunque, quasi come un fantasy di Tolkien, epurato da atmosfere troppo astratte e rarefatte, con l’irruzione di elementi fisici e quotidiani. Il Suo libro gioca molto sui diversi livelli narrativi. Per quale motivo una simile scelta stilistica?
Ah, che domanda difficile. Credo che lo stile non si scelga a priori, così come non si sceglie la voce con cui parliamo. Mi è venuto spontaneo alternare uno stile “epico” per i personaggi non umani e uno stile più secco per gli umani. Quanto alla commistione dei due elementi, è quella che prediligo anche nelle letture: se dev’esserci un’irruzione del mondo Altro, deve avvenire nella realtà che conosco e frequento. Una metropolitana, la camera di una ragazzina, una strada.

5. Più volte ha affermato di aver ricercato una certa coralità nel suo romanzo. Una scelta non facile, visto che L’ha portata ad attribuire la medesima importanza a personaggi principali, secondari e anche a semplici comparse. Un elemento sovente apprezzato dai suoi lettori.
Oppure trovato troppo difficile. Qui, davvero, è una questione di gusti: a me piace molto l’idea di dare voce ai personaggi minori, e in Sopdet avviene in misura ancora maggiore rispetto a Esbat. Ho amato molto la mamma silenziosa di Sasaki, a cui ho attribuito un punto di vista, e persino la terribile madre di Ivy. Semplicemente, credo che moltiplicare i punti di accesso alla storia possa arricchirla.

6. È per questo che ha scelto di servirsi di una scrittura, mi perdoni l’etichetta, giornalistica? Per la variatio che Le permetteva a più livelli?
Non so se sia giornalistica: sicuramente è scarna. Ma quella non è una scelta, è un po’ il mio modo di scrivere: se sono al servizio della storia, mi viene da concentrarmi su quella più che sulla bellezza di un singolo termine. Anche se su un singolo termine posso rimanere, in revisione, per giorni interi…

7. Passando alla storia vera e propria, Esbat è definibile come un libro di donne. Certamente i personaggi maschili non mancano; basta pensare a Hyoutsuki, una delle figure maschili più importanti. Ma è proprio nelle donne che sembra essere espressa l’elemento più pericoloso ed inquietante.
Vero. Anche qui, non si tratta di una decisione a priori, ma di qualcosa che mi è venuto spontaneo: mi piaceva l’idea di una protagonista – la Sensei – non canonica. Non giovane, non bella, non positiva. Anzi. Eppure volevo che il lettore potesse, insieme, detestarla e amarla. Perché credo che in ognuna di noi esistano lati oscuri che possono “risuonare” con quelli della Sensei. O con quelli di Ivy, che non è un’eroina: è una ragazza. Un’eroina – senza fare spoiler – si sarebbe comportata diversamente.

8. La donna per eccellenza risulta essere Axieros. Una dea, un’entità, una manifestazione. Da dove è emersa questa figura? E cosa rappresenta per Lei?
E’ emersa davvero dal buio. Volevo che esistesse una dea, nella storia. E volevo che fosse tremenda e potente come le Grandi Madri dell’antichità. Il nome Axieros è uscito per puro caso, scoprendo che proprio questo potrebbe essere il nome della più antica delle Madri. Per me la dea è il senso dell’Alterità. Purissimo.

9. Accanto ad Axieros, l’altro personaggio femminile che infrange un po’ i soliti topoi narrativi è la Sensei. Fin dal non avere un nome preciso e autonomo: La definisce continuamente con un appellativo, quasi uno pseudonimo.
Sì, ed è una scelta precisa. Proprio perché la stessa Sensei ha rinunciato alla propria interezza di donna per dedicarsi soltanto al proprio lavoro: quindi, ha dimenticato il proprio nome in favore di quello che è soltanto l’appellativo onorifico.

10. Possiamo concedere due parole anche a Ivy? Ha più volte affermato, sul suo blog, la difficoltà di rapportarsi a questa ragazzina. Come mai?
Perché è sfuggente, come la ragazzina che io sono stata e come, penso, tutte le adolescenti del mondo. E’ qualcosa e subito dopo è qualcos’altro. Ha potere, ma non lo desidera. Cerca l’amore ma lo sfugge. E’ difficile restituire la complessità di un personaggio senza cadere nello stereotipo: ci ho provato, continuo a provarci ora.

11. Di recente, ha anche asserito che ognuno uccide chi ama. Il gatto, ad esempio, nel Suo romanzo diviene l’agnello sacrificale per rendere quasi a livello empatico il dolore di una perdita. Con Chirs, allora, quale meccanismo è scattato?
La storia personale. Anche io ho avuto una Chris, nel mio passato, che mi perseguitava come e più di Ivy. Al momento di ucciderla, ho provato un’enorme tenerezza per lei (così come per le altre vittime della Sensei). Liberatorio? Non so. Sicuramente, quando si sceglie una vittima per la propria storia, si pesca dai nostri gorghi oscuri. Almeno, per me è così.

12. In Ivy, ma anche in Sasaki o Misako, Lei sembra aver racchiuso un piccolo spaccato della realtà del web, del mondo dei fandom e delle paure e delle speranze che la rete racchiude, sfiorando la realtà degli otaku e degli hikikomori. La Sua opinione al riguardo?
Non ne ho, perché io stessa vivo in modo assiduo la rete e conosco un paio di hikikomori italiani. Non penso che la rete in sé sia il motivo scatenante di queste solitudini: penso che sia molto difficile non essere soli, in assoluto. Quanto al fandom: è stata un’esperienza meravigliosa quella di scambiare idee con altri fan, e mi ha arricchito moltissimo. Per questo continuo ad andare su tutte le furie quando arriva qualcuno che parla in modo sprezzante delle fan.

13. L’elemento motore delle vari vicende, in Esbat, nonostante il coinvolgimento di figure divine o semidivine, è fortemente umano o almeno fisico: il desiderio. Espresso a più livelli, dall’amore platonico a quello sensuale, passando per l’ossessione, la degenerazione del sentimento medesimo in odio e morbosità fino allo scolorire in divertimento.
Ma perché è il motore primo della vita stessa: il desiderio è quello che ci muove, più di ogni altra cosa. Il desiderio è quello che ci rende, prima ancora che umani, viventi. Per questo accomuna mortali e semidei.

14. Abbiamo parlato delle Sue donne. Ma anche i personaggi maschili del suo libro sono di tutto rispetto. In primis il fatto che il protagonista, Hyoutsuki-sama, pur avendo “graficamente” i requisiti del principe azzurro risulta essere capace di uccidere senza remore. Uno youkai, una creatura diversa. Perché, secondo Lei, è forte l’interesse per una creatura simile?
Perché è il Grado Zero dell’umanità. Ho sempre immaginato gli youkai giapponesi molto simili alle divinità greche, che uccidevano per capriccio o per noia. Con la differenza che Hyoutsuki non ha bisogno neppure di uccidere per divertirsi: basta a se stesso. Quel che desideravo era restituire questo maschile a tutto tondo che, pian, piano, comincia a rivolgere lo sguardo altrove.

15. Hyoutsuki-sama, nel corso del romanzo, cresce e si evolve. È possibile parlare di una maturazione o è piuttosto la presa di coscienza del demone di avere altre e diverse frecce al proprio arco?
E’ una crescita, assolutamente: è l’uscita di Siddharta dalle mura del palazzo per incontrare l’Altro. Hyoutuski è diverso alla fine di Esbat, anche se lo nega mille volte. Ma non perché diventi “più malleabile”: entra in contatto con qualcosa che non è come lui. E questo lo cambia.

16. Lei sembra amare i chiaroscuri e le sfumature. Anche l’altro personaggio maschile che domina la scena, Yobai, è un prisma. Estremamente complesso da gestire, gli attribuisce mille volti e mille nomi. A volte, come anche Hyoutsuki-sama, sembra solo il predro di Axieros; altre volte l’artefice degli avvenimenti stesso; altre ancora la vittima. E il tutto in un personaggio che è scisso fra la realtà umana e quella sovrannaturale.
Perché è un ibrido: non del tutto umano, non del tutto divino. Dunque, conserva qualcosa dei due mondi. Dunque, è quello che sento forse più vicino da autrice: ed è estremamente affascinante occuparsi di lui.

17. In Esbat compare anche la Wicca, questa religione new age che riporta in auge gli dei pagani. Lei ha creato una, cito dalla sua nota conclusiva, “branca deviata della medesima, fedele alla dea Axieros”.
Ho utilizzato la Wicca perché mi incuriosiva il neopaganesimo: e perché, meglio ancora, mi permetteva di far entrare in contatto prima la Sensei e poi Ivy con la Dea. Ma la branca sanguinaria è totalmente inventata.

18. Ma in Esbat è sottintesa anche la differenza fra essoterismo ed esoterimo, con i due piani che sembrano trovare un loro equilibrio momentaneo in Ivy, prima di scivolare nel drammatico.
Vero. Ma confesso di non averci pensato a priori: come per altri meccanismi di Esbat che solo i lettori mi hanno poi svelato.

19. Prima si è accennato all’assenza di un nome preciso per la Sensei. Ma nel Suo libro a mancare sono anche le descrizioni. Non nel senso assoluto, ma di vari personaggi si conoscono solo dettagli fisici. Mentre il ritratto psicologico è completo e complesso.
Questo, lo ammetto, è un mio vezzo. O meglio, un mio gusto di lettrice: non ho mai amato molto le descrizioni particolareggiate, dove persino il modo in cui una ciocca di capelli ricade su un occhio occupa due paragrafi. Credo che tolga qualcosa all’immaginazione di chi legge: ho sempre preferito mescolare i particolari con il discorso, e lasciare che la ricostruzione del puzzle avvenga attraverso la conoscenza psicologica del personaggio stesso.

20. Un altro elemento di Esbat sono i riferimenti diretti da Lei effettuati al manga Inuyasha. Un omaggio e una strizzata d’occhio giocosa verso chi, a suo tempo, lesse la storia?
Esatto. Una metacitazione, diciamo così.

21. Il suo gusto per la citazione emerge a vari livelli, in Esbat. Dai riferimenti allusi a Stephen King nelle mutilazioni della Sensei o in certi nomi, come per Chris, ai più espliciti diretti coinvolgimenti di filosofi greci quali Platone e poeti italiani otto-novecenteschi come Pascoli.
Vero, mi è stato anche rimproverato che ho la citazione facile. Eppure per me non è l’esibizione delle medaglie culturali (quali, poi?), quanto l’immersione in un mondo che circonda i personaggi stessi. Un’eco. Un tassello, fra i molti.

22. Pascoli e Platone, si è detto. In bocca a personaggi che, anche se non in modo netto, si stagliano su uno sfondo se non precisamente giapponese, di forte connotazione orientaleggiante. Non temeva di creare dei legami un po’ forzati?
Volevo creare un legame forte con l’Italia: ho immaginato che Masada amasse moltissimo la cultura italiana al punto di trasferirla alla donna che ama. Di qui, Pascoli. Quanto a Platone, è un tassello, come dicevo prima, per Yobai: che testimonia quanto, dai suoi passaggi, sappia ogni volta apprendere.

23. Esbat parte da una fan fiction e diviene romanzo. Ma al centro di tutto c’è la scrittura. Ritiene che il mondo del fandom e dei fanwriters abbia una funzione puramente evasiva o potrebbe rivestire una qualche utilità?
Più che di utilità parlerei di PRESENZA nel mondo della scrittura: chi scrive fan fiction è uno scrittore, pubblica, anche se on line, e viene letto. Ci potranno essere pessime fan fiction e meravigliose fan fiction: ma esistono, sono una realtà e vanno considerate come tali.

24. Per Esbat si deve esser documentata in vari campi: demonologia, mitologia, cultura giapponese, religione new age e Wicca in particolare. Interessi già coltivati in precedenza o nati col romanzo per necessità?
Diciamo che ho spesso flirtato con il mondo esoterico. Come lettrice.

25. Ritiene che, a prescindere che lo scritto venga pubblicato (che si tratti di un romanzo o di una fan fiction, quindi), sia importante la documentazione e un ritratto realistico dell’universo cui ci si approccia?
Certamente sì, sempre e comunque: raccontare una storia è un atto di condivisione con gli altri. Se li si rispetta, occorre essere seri e dare il meglio, sempre.

26. E, perdoni la domanda un po’ provocatoria, perché mai si dovrebbe scrivere una fan fiction? Soprattutto se non si ha l’aspirazione a trasformare il tutto, poi, in un romanzo completamente autonomo.
Per amore, direi.

27. La Sue presentazione personale, sia nel libro sia sul Suo blog, è estremamente selettiva nelle informazioni. Sappiamo la sua età, e la sua passione per la lettura. Qual è la motivazione di questa scelta?
Rispondo con una citazione. Indovini? Di Stephen King: “è la storia, non colui che la racconta”. Ecco.

Ringrazio Lara Manni per la disponibilità e la gentilezza, e Le porgo i miei più sinceri auguri per i Suoi prossimi lavori.

 

 
Autore: Avalon9
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale
Personaggi Principali: Shinichi Kudo; Heiji Hattori
Altri Personaggi: Ran Mouri e Kazuha Toyama come guest star
Rating: giallo
In proposito: Fa male, vero? Non è giusto. E fa male. E, in fondo, lo sai che la colpa è tua. Solo tua. E ci preferiresti essere tu, in quel letto. E ti andrebbe bene ascoltare e ascoltare e sapere che, in fondo, quello che ti dicono sono tutte bugie. Perchè non sei stupido e di medicina, almeno un po', te ne intendi anche tu.
Un piccolo confronto fra Heiji e Shinichi: il loro rapporto, la sua evoluzione. I dubbi, le paure, le certezze. Con, incombente, un terrore che non si vuole affrontare e con cui bisogna confrontarsi ad ogni (ultima) parola.
Disclaimer: i personaggi sono di Gosho Aoyama; la situazione invece la rivendico mia^^
Cose: Dunque. La prima fan fiction che scrivo, in questo fandom. E la lascio incompiuta, in un certo senso. Perché, io per prima, so che non si capisce esattamente se il trapianto necessario a Heiji avverrà o meno o se (come dice Shinichi) morirà. Ma ho voluto così; ognuno è libero di leggere soprattutto le ultime battute come maggiormente gli aggrada: realtà, ricordo, illusione, paura, realtà traslata (o metaforica, che dir si voglia). In definitiva, nello scrivere questa fanficion, mi sono accorta che non mi interessava la conclusione in sé, ma il processo per arrivarci. Mi interessavano (stimolavano) le situazioni che potevano crearsi, i dialoghi che Shinichi e Heiji potevano fare in ospedale, in attesa del trapianto, e i collegamenti retrospettivi che avrebbero potuto creare. Adoro Heiji e Shinichi; e li adoro in coppia. Credo (temo) che il loro rapporto sia uno dei più belli, complessi e sfaccettati in cui finora mi sia imbattuta in un anime/manga. Mi sono divertita a invertite le parti, in un certo qual modo. Di solito, è Shinichi il pessimista, quello rassegnato (non in senso assoluto, sia chiaro); mentre Heiji ha dalla sua una carica di entusiasmo e vitalità splendida. Qui, invece, mi sono chiesta: e se per una volta fosse Heiji a non confidare più? In definitiva, è lui quello disteso in un letto d’ospedale; è lui il nome in una lista di mille altri. Penso che in un simile contesto Shinichi sarebbe disposto ad accantonare la logica e la razionalità per il solo intento di poterlo rasserenare almeno un po’. Nove quadretti, in tutto. Nove rimpianti o ricordi o testamenti che Heiji ha o vorrebbe lasciare. Nove piccoli spaccati senza alcuna pretesa del suo rapporto complicato con Shinichi Kudo. E sulla sua ferma decisione di essere, comunque, sempre dalla sua parte, al suo fianco.


 MShoin Monogatari

Racconti di studio

Ehi, Hattori.

A te…non è mai capitato…di uccidere qualcuno?

(Shinichi Kudo, Volume 16 file 2)

Fa male, vero?

Non è giusto. E fa male. E, in fondo, lo sai che la colpa è tua. Solo tua. E ci preferiresti essere tu, in quel letto. E ti andrebbe bene ascoltare e ascoltare e sapere che, in fondo, quello che ti dicono sono tutte bugie. Perché non sei stupido e di medicina, almeno un po’, te ne intendi anche tu.

Ma le ascolteresti lo stesso, quelle bugie. E non ti interesserebbe perché.

Perché è bello, in fondo, ogni tanto sperarci, in qualcosa di diverso. Perché, per una volta, la verità la si può dimenticare.

Ci dovresti essere tu, in quel letto. Vero, Shinichi?

O forse non dovrebbe starci nessuno. Anche se (è vero) la colpa di tutto è stata tua. Perché ti piaceva (giusto?) giocare al detective. E alla realtà (diversa. Pericolosa) non ci pensavi. Ti divertivi; ed era come nei libri.

Ragiona; ragiona; ragiona.

Ti divertivi; e ai pericoli, a quelli veri, non ci avevi mai pensato prima (seriamente). Perché il libro lo puoi riaprire; perché il libro ricomincia e tu, di nuovo, cerchi e cerchi e cerchi. E se la soluzione scappa non importa. Tanto c’è tempo; c’è sempre tempo (nei libri).

Era un gioco, per te, Shinichi. Un gioco serio.

E in qualcosa di serio (un gioco) ci sei caduto. E no, di tempo non ce n’era più. C’era la paura, la ricordi Shinichi? Tanta paura. E c’erano le bugie.

Hai imparato a dirle bene, le bugie. Giusto, Shinichi?

E lui le ha scoperte. Ma – forse – volevi che lo sapesse, giusto? Volevi guardarlo negli occhi e potergli dire: watashi wa Shinichi Kudo desu.

E quella volta, mentre lo guardavi, mentre la voce se ne stava lì, nella gola con un vecchio respiro addormentato; mentre ti chiedevi perché e forse la risposta la sapevi, ma non ci volevi credere nemmeno tu; mentre lui aspettava e – lo sai; ne sei sicuro – ci godeva nell’averti lasciato senza parole; mentre pregavi e pensavi e sapevi che una soluzione non ce l’avevi. Quella volta (lo sai bene, Shinichi), quella volta non hai avuto paura.

Perché Hattori sorrideva (maledetto) e ti prometteva: sarà un segreto nostro.

[ # Negativo 1]

“Mi sarebbe piaciuto vederla”

“Cosa?”

“Casa tua. Alle Hawaii”

“La vedrai”. Il libro (pesante) sul comodino e quel sorriso – falso; ma per una volta si può mentire anche a lui, no?. “La vedrai” ripete (triste) convinto.

“Lo credi?”

“Hai”

Gliene hai parlato tanto (troppo).

Gliel’hai fatta immaginare, quella casa. E Hattori – lo sapevi, Shinichi – è curioso. E di vederla, quella casa, ne ha sempre avuto voglia.

Ti piaceva provocarlo, vero Shinichi?

E una sera gliene hai parlato; te ne ricordi Shinichi?

Mentre l’engawa era tiepida e il kayaributa fumava; mentre le pagine si sfogliavano e per una volta il tempo lo passavate a chiacchierare senza chiedere se c’era un perché. Aveva insistito tanto, quella volta, Hattori. Perché Sumiyoshi è bella, a Osaka. E aveva voglia (troppa. Pericolosa) di parlare con te. Hattori parlava e raccontava della sua (amata) città. Perché Hattori, con te, (lo sai, vero Shinichi?) voleva condividere.

E tu (bambino) non volevi capirla, quella condivisione. Tu (diviso) avevi paura – ricordi Shinichi? –  di dividere troppo. E di restarci intrappolato, in quelle parole.

Gli hai fatto male, quella volta. E lo volevi, giusto Shinichi?

Perché gli hai detto che Osaka era bella, ma io preferisco le Hawaii. E Hattori (te lo ricordi bene, Shinichi) ti ha fissato e le spalle (grandi; adulte) si sono strette. E hai pensato: acacian.

Ma Hattori le spalle (strette) non le alzava più e tu (adulto) ti sei sentito (per la prima volta) bambino. Perché quella volta la paura (strana) premeva e premeva, ma di scappare non lo volevi. Te lo ricordi Shinichi? E Hattori (zitto) urlava: non allontanarmi.

E mentre l’engawa (tiepida) diventava nera ti sei detto che , (forse) potevi permetterti una promessa così; potevi lasciarlo avvicinare – un po’.

E gli avevi detto che alle Hawaii avevi una casa e un giorno (forse) ci sareste potuti andare.

E Hattori (al buio) rideva e parlava e progettava; e quell’urlo (non allontanarmi) adesso diceva: oki ni.

[ # Negativo 2]

 

 

“Kudo”

“Nani?”

“Il mio cappello”. Gli occhi (stanchi) respirano nel tramonto. E la mano si allunga; e sembra rammarico. “Ricordati la visiera girata. Porta fortuna”

“Prestito, giusto?”

“Lo credi davvero?”

“Hai”

Hattori è geloso del suo cappello.

Lo sai bene, vero Shinichi? Non te l’ha mai fatto toccare. Non lo fa mai toccare a nessuno (una volta te lo ha messo in testa. Te lo ricordi, Shinchi? Ma quella era l’eccezione). E se lo tiene stretto, quel cappello, Hattori.

Ce lo aveva anche quella volta, te lo ricordi? Quando vi siete conosciuti.

E la visiera (porta fortuna) non era dietro. Perché la visiera (che è girata) Hattori la mette al posto giusto, quando ha la soluzione. E ti guarda con quel mezzo sorriso sfacciato e –chissà perché – ti viene voglia di ridere e ridere e dire: hai.

Perché con Hattori è bello giocare. E il gioco (serio) è più divertente.

Perché (Ricordi, Shinichi? Glielo hai insegnato tu) non ci sono vincitore o vinti. E alla fine, era sempre il sorriso di Hattori, la soddisfazione tua e quel cappellino che ruotava e tornava al suo (sbagliato) posto.

Non te lo ha mai fatto toccare, il suo capello, Hattori.

Ma una volta voleva regalartene uno uguale, ricordi Shinichi? Quella volta (forse a maggio, o forse era autunno) Osaka era calda e tu (bambino) il caldo non lo sopportavi più, mentre cercavi e cercavi una soluzione tanto ovvia da scappare. E Hattori un cappellino te lo aveva messo in testa e ti aveva detto: siamo una squadra.

Ma tu il cappellino(la squadra) non l’hai voluto. Perché avevi paura, ricordi Shinichi?

Perché un bambino (tu) non può difendersi, e Hattori a te ci pensava sempre (troppo). E anche la squadra (un cappellino) non la volevi. Ma la desideravi tanto, vero Shinichi?

Alzare gli occhi e vedere quel sorriso. E sapere che Hattori c’era e il suo cellulare potevi chiamarlo quando volevi.

Perché Hattori aveva detto: siamo una squadra. E io ci sarò sempre.

[ # Negativo 3]

“Davvero?

“Hai.”

“Noi due insieme”. La risata (un colpo di tosse) a riempire la stanza (stretta). “Sarebbe bello, Kudo”

“Sarà bello, Hattori”. La mano (fredda) stringe e cerca (disperata) di afferrare, trattenere, fermare. Mentre la tosse (una risata) rimbomba e rimbomba. “Sarà bello”

“Tokyo o Osaka?”

“Dove vorrai”

Hattori ha quel sogno da tanto.

Non te lo ha mai detto, quando ha iniziato a sperarci. Ma (lo sai, vero Shinichi?) quello di Hattori è un vecchio sogno. Ma lui no, non lo chiama così. Hattori dice: progetto.

Perché Hattori ne ha fatti molti, di progetti; ne ha tanti.

Ma quello l’ha pensato per (con) te.

E a te non dispiace, vero Shinichi?

Era stato un gioco, nato così. Mentre il mento (tuo) era sempre più basso e lo sconforto e la paura (hai imparato bene cos’è la paura. Giusto, Shinichi? Troppo bene) salivano e salivano. E un perché non c’era. Avevi imparato a conviverci, con quella sensazione. E avevi imparato (per proteggerti) a non illuderti.

Ma Hattori alle illusioni (sogni) ci ha sempre creduto. E della tua faccia un po’ delusa un po’ arrabbiata non ne voleva proprio sapere. E c’era il kotatsu caldo e due tazze di thè e l’occhiata (pericolosa) di Hattori; e la televisione gracchiava e gracchiava e fuori Osaka era freddo e nebbia.

E (lo avevi percepito, vero Shinichi?) c’era un’aria strana e, mentre alzavi la testa (un po’ delusa un po’ arrabbiata), avevi pensato: sicurezza.

E quel progetto (un’illusione) lo avevi ascoltato; anche se no, non ti eri dato il permesso di crederci. Ma Hattori rideva e rideva e parlava e – lo ricordi, Shinichi? – tu non capivi se scherzasse o se dicesse sul serio. Ma Hattori te lo aveva detto (pericoloso) e in quel progetto (un’illusione) ci crede(va) davvero.

E (in fondo) volevi crederci anche tu, vero Shinichi? E litigare per l’ordine dei nomi sull’insegna, e giocare a rincorrere le soluzioni e sfidarsi anche se sapevi che, in fondo, il traguardo lo tagliavate sempre assieme. E discutere di libri e di casi e poter costruire di nuovo qualcosa.

Lo desideravi, vero Shinichi? E a Hattosi hai detto: hai (anche se di illuderti non ne volevi sapere).

E Hattori sorrideva e ripeteva: la nostra agenzia.

[ # Negativo 4]

Non lo detestavi, Kudo?”

“Cosa, Hattori?”

“Ellery Queen”

“Infatti”. Il sorriso (malinconia) si nasconde dietro il libro, mentre gli occhi (addormentati; ma non importa. Resta ancora un po’) si stringono strizzano. “Ma a te piace, no?”

“Aho no Kudo”

“Domo. Vado avanti a leggere?”

“Hai”

L’accento di Hattori è diverso.

Sembra una risata. E ad Hattori ridere piace(va); te lo ricordi, Shinichi? Hattori (l’accento) è diverso. E tu – lo hai sentito, vero Shinichi? – ci vai d’accordo.

Perché con la risata (Hattori) ci puoi parlare e non ridacchia e non sbuffa e non si arrabbia; con Hattori (ridendo) fai discorsi seri.

Hattori serio non lo sembra mai, ma tu la sai, Shinichi, la differenza. Perché non è difficile, alla fine, parlare con Hattori. E è bello (ma non glielo dici mai, vero Shinichi?).

E ad Hattori piace parlare con te. Perché si diverte – lo sai – con il suo dialetto diverso. E le risate (osakaben) continuano e continuano.

Hattori rideva anche quella notte. Mentre i petali scendevano; mentre il futon (caldo) era stretto; mentre le parole erano sussurri. Hattori parlava e raccontava e si confidava e sembrava che fosse sempre stato così. Quella notte (era aprile), mentre la maglia di Hattori era larga; mentre gli occhiali erano dimenticati sotto un cappellino. Quella notte – lo ricordi bene, Shinichi – Hattori aveva riso (senza le parole) e tu (bambino) avevi riso con lui.

Perché Hattori ti punzecchiava e ti sfidava e ti provocava. Ma la risata (un accento) ti sussurrava: fidati.

 

[ # Negativo 5]

 

 

“Ehi, Kudo”

“Cosa c’è?”

“Kazuha”. Il respiro (pesante) rimbomba. Mentre il sole si taglia nelle tapparelle; mentre gli occhi iniziano (maledetti) a sfumare. “Avrei voluto sposarla”

“La sposerai”. E la voce è un nodo; e resta a gracchiare in gola. Anche se ripete e ripete e ripete: “La sposerai”

“Mi farai da testimone?”

“Certo”

Toyama viene ogni giorno.

Si siede, e parla. Parla e parla e racconta. E a te fa rabbia, vero Shinichi? E fa male. Perché Toyama parla e parla, ma – lo sai – vorrebbe piangere.

E la colpa è tua, giusto Shinichi? Anche se non te lo ha mai detto. Anche se Toyama sorride e parla e a rinfacciarti qualcosa (ma ha ragione, Shinichi) non ci pensa nemmeno.

Hattori è contento, quando viene Toyamasan. E parla e ride e dice (finge): sto bene. Perché – lo hai capito subito, vero Shinichi? – Toyama è preziosa per Hattori.

E Hattori a te (ed eri un bambino) lo aveva confidato.

E c’erano i fuochi d’artificio e una granita in mano; e Hattori apriva la bocca e la chiudeva. E tu (che avevi capito) avevi voglia di dirgli solo: va’ da lei.

Ma c’era il bambù e striscioline di carta e Hattori girava e rigirava la granita e ti guardava (supplicava). Perché aveva paura, Hattori; e lo diceva a un bambino (a te)

Hattori è contento, quando viene Toyama. Ma tu no, vero Shinichi?

Perché lo sai che Toyama è arrabbiata. E la sa anche Hattori, ma sorride. Perché Toyama (che è arrabbiata) viene ogni giorno. E gli dice: guarisci.

Hattori te la ha detto, Shinchi, che Toyama è speciale. Ed era estate e rideva e balbettava e ti aveva detto: dammi un consiglio.

E tu (bambino) gli avevi detto: perché? E della sua risposta – lo ricordi, Shinchi? – avevi (troppa) paura. Perché Hattori scrollava le spalle e ridacchiava; perché Hattori a te i consigli li chiedeva sempre; perché Hattori voleva (sapeva) qualcosa che ti terrorizzava.

Ma un bambino (tu) avevi paura. Anche se Hattori sorrideva e ti guardava e (maledetto) ti diceva: perché sei il mio migliore amico.

[ # Negativo 6]

Non hai da fare, Kudo?”

“Se ti do fastidio, me ne vado”

“Davvero lo faresti?”, Il sorriso (pallido) si accenna; mentre la voce accarezza (forse divertita) una vecchia (complice) sensazione.

“Hai” - Ie.

“Sei sempre stato un pessimo bugiardo.”

“Lo so”

Con Hattori le bugie non funzionano.

Lo sai bene, vero Shinichi? Non sei mai riuscito a convincerlo di una, delle tue bugie – ma eri contento così, ricordi Shinichi?

Con Hattori le bugie (che dovrebbero funzionare) sono inutili. Perché lo aveva intuito subito, Hattori, che qualcosa non era normale. Perché un bambino (tu) non piangeva e non si spaventava; perché tu (un bambino) cercavi e chiedevi e lo guardavi e sembravi dirgli: l’hai trovata, la soluzione?

Con Hattori le bugie non sono servite – mai.

Ma lo hai costretto a dirne tante, di bugie, vero Shinichi? E – lo sapevi – ad Hattori le bugie sono sempre andate strette. I segreti , li sa mantenere, Hattori. Ma le bugie gli restano incastrate nella gola. E tu lo sapevi, vero Shinichi?

Ma Hattori le bugie (e no, non gli piacevano) per te le diceva. E ridacchiava e improvvisava e pensava e inventava. Perché te lo aveva promesso, Shinichi. Mentre la luce si rompeva sul finestrino; mentre la voglia di ridere e di chiedere e la sorpresa erano un mezzo sorriso e quegli occhi (dannati) ti studiavano. Te lo aveva detto, Hattori, e no, non era stata una bugia (perché ad Hattori – lo sai – le bugie non piacciono): non lo dirò a nessuno.

Tu eri bravo, con le bugie, Shinichi. Ma ad Hattori ci hai rinunciato subito, a dirle.

Perché Hattori, le bugie, le schiacciava subito. E, in fondo, avevi bisogno che qualcuno (lui) ti ricordasse chi sei. E lui (non qualcuno) il segreto lo aveva tenuto (anche se le bugie no, non gli piacciono) e ti chiamava e sussurrava: Kudo.

Le bugie – lo ricordi Shinichi? – avevi imparato a dirle bene; anche se a Hattori non piacevano. Ma con Hattori le bugie erano pessime.

Perché (mentre il viaggio scorreva) rideva e ripeteva: non lo dirò a nessuno.

[ # Negativo 7]

“Per quando, Kudo?”

“Settembre”

“È un bel mese.” Il respiro (vecchio) si affievolisce; mentre la mano ricade; mentre il corpo (addormentato) resta immobile. “Vorrei vederlo”

“Lo vedrai. Al tempio”

“Al tempio”

“Hai”

La pancia di Ran è grande.

Mentre la mano (pallida) trema un po’; mentre negli occhi (vuoti) c’è di nuovo qualcosa. Mentre Ran stringe e accarezza quella mano e Hattori di ridere, forse, ne ha di nuovo voglia.

Hattori era contento, ricordi Shinichi?

E c’era il mare in lontananza e il freddo nelle ossa e quel tuo mezzo (fastidioso) sorriso. E avevi voglia di ridere, ricordi Shinichi?

Avevi voglia di ridere e urlare; perché Hattori era venuto – senza avvisare.

Perché Hattori era venuto, quando qualcuno glielo aveva detto. E aveva sorriso e aveva riso e ti aveva stretto stretto – ed era bello, vero Shinichi? – e aveva detto: omedetoo.

Hattori era venuto, e adesso, sulla pancia (grande) la mano la teneva. E cercava e rincorreva e sentiva quel qualcosa muoversi e colpire e fare tutum tutum.

Hattori era venuto, e ti aveva rimproverato e preso in giro. Perché tu (chissà perché) non lo avevi chiamato. Perché quel segreto (che non fa paura) a lui non lo avevi confidato – non subito.

Ma Hattori era venuto e ti aveva detto (pericoloso): ci sarò anch’io, al tempio.

E – la ricordi, Shinichi? Quella bella sensazione – avevi pensato che , ce lo volevi al tempio Hattori.

Perché Hattori rideva e ripeteva: omedetoo.

E faceva progetti, Hattori (che no, non erano illusioni. Ancora). E parlava e parlava e contava (uno, due, tre) i mesi sulle dita. E sbagliava e rideva e ricominciava. Perché, in fondo, davvero non gli interessava, il mese.

Hattori rideva e la mano (che adesso è sulla pancia) non stava mai ferma. Perché Hattori è curioso. E – lo sai, vero Shinichi? – a te si è affezionato molto (troppo).

La pancia di Ran è grande.

E la mano (che non stava ferma) riposa e ascolta. E Hattori ti guarda e (senza avvisare) sorride e dice: omedetoo.

[ # Negativo 8]

Non ti ho mai visto, Kudo”

“Fare cosa?”

“Giocare a calcio”

“Mi vedrai, Hattori”. E le mani stringono e premono e stridono. E la voce (che trema) diventa sorriso (falso). Mentre un pensiero (pallone) rotola lontano. “Mi vedrai”

“Mi insegnerai?”

“Hai”

Hattori odio il calcio.

E te lo ha detto subito, ricordi Shinichi? Hattori, il calcio, proprio non lo sopporta. Perché il pallone (su giù; su giù) non è divertente; perché nel calcio si deve essere tanti. Hattori a pallone non ci ha mai voluto giocare. Perché di amici, per il pallone (calcio) non ne aveva. E (forse) non gli interessava.

Hattori, il calcio (uno stupido pallone), lo detesta.

Ma quella volta – lo sai, Shinchi – il pallone Hattori lo a preso e faceva su giù su giù (il pallone odiato) e ti diceva: non capisco cosa ci sia di divertente.

Hattori il pallone non lo può (vuole) vedere; ma per te ( ed è stata una strana bella sensazione. La ricordi, Shinichi?) lo ha preso. Perché eri triste, e dentro, nella testa, un pensiero pulsava e pulsava e tu (bambino) non lo volevi ascoltare. Perché ti eri ricordato (e faceva paura) che le cose cambiano.

Te lo ricordi bene, vero Shinichi?

La paura (tristezza) che preme e preme e Hattori che (chissà perché) così proprio non ti ci vuol vedere. Aveva paura, Hattori, mentre il pallone (cha va su giù su giù) scappava e rotolava e rimbalzava.

Hattori il calcio lo odia. Ma (baka) per te il pallone lo ha preso e tirato e ci ha giocato (per con te). E – lo sai, Shinichi – di farci brutta figura non gli interessava. Perché Hattori rideva e rideva e (dannato) ti provocava. E hai pensato che (forse) qualcosa che cambia non è sempre male.

E Hattori sorrideva e ti guardava e – te lo sei immaginato, Shinichi? – ti diceva: sai Kudo? Non lo odio più, il calcio.

[ # Negativo 9]

“Ti ricordi akatonbo,, Kudo?”

“Vuoi una komori uta, Hattori?”

“Sei stonato”. Un sorriso (vecchio) guizza pallido. Mentre il sole scende; mentre il caldo è assordante e le cicale (cri cri; cri cri) rimbombano. “E’ stato bello, Kudo”

“Sì; bello, Hattori”

“Shindoi”

“Ci vediamo domani, allora”

“Hai”

Ad Hattori piace il (tuo) violino.

E di sentirti suonare ha sempre voglia; e tu sbuffi e arricci (finto) infastidito il naso. Ma per Hattori il violino lo suon(av)i sempre. Mentre il cappellino gira e gira; mentre ti guarda e (lo sai, vero Shinichi?) sorride e ti dice: ti ammiro.

Il violino (tuo) Hattori lo ama. Anche se di musica non ne sa molto, Hattori; ma ti dice: suona.

E il violino (che ami) ad Hattori lo hai messo in mano e gli hai detto: prova. Perché Hattori rideva e ti guardava e gli occhi (bambino) ti dicevano: ammirazione.

Hattori il violino non lo sa suonare. E tu – lo ricordi, Shinichi? – gli hai dato il tuo (ed era bello, dirgli cosa fare. Era strano) e del gracchiare non ti importava nulla.

Hattori non suona, ma di cantare è bravo.

Ma quella notte no, non è stato bravo a cantare Hattori.

Mentre Ran rideva e scherzava e (forse) non ci credeva ancora, che tu fossi tornato. C’era il microfono che girava e girava, quella notte (forse era giugno forse maggio); e anche tu di ridere e scherzare (dopo tempo) ne avevi voglia.

Perché la paura (hai imparato a conoscerla bene, vero Shinichi?) era passata. Perché qualcuno ti aveva detto di cantare, anche se tu (che il violino lo sai suonare) di stonare non ne avevi voglia.

Hattori di cantare è bravo.

Ma quella notte (forse d’estate), Hattori no, non ha cantato bene.

Perché tu (che bambino non lo eri più) di cantare non sei capace – nemmeno una komori uta (da bambini). Ma Hattori rideva e rideva e cantava e stonava con (per) te. E della figura (brutta) che faceva non gli importava.

Hattori sorrideva, mentre stonava; e lui di cantare era capace. Hattori sorrideva e (complice) ti stringeva (forse la spalla forse il braccio) e diceva: okaeri, Kudo.

[Fissaggio]

Heiji Hattori.

Ventisei anni; nato a Osaka; investigatore privato.

Diagnosi: trauma toracico grave con contusione cardiaca.

Sopraggiunte complicazioni nel tempo; sviluppo miocardite.

Cura: trapianto. Urgente.

Hattori è cocciuto (e tu lo sapevi, Shinichi).

Hattori è cocciuto, e quella sera (quanti anni?) a casa del dottor Agasa c’era. Ed era arrabbiato, Hattori, e tu (falso) gli hai sorriso e gli hai detto: che ci fai qui?

Era arrabbiato, Hattori, quella sera. Perché volevi tagliarlo fuori, te lo ricordi Shinichi? Ma di restarsene fermo a guardare (te. Che ti fai ammazzare) Hattori non ne aveva voglia. E tu lo sapevi che a fargli cambiare idea non ci saresti riuscito.

Hattori ti guardava, quella sera, e di ridere e scherzare non ne aveva voglia. E l’accento diverso (era una risata) – lo hai sentito, Shinichi – ti ha fatto male. Perché Hattori ti guarda e quegli occhi (avviliti) urlavano: perché?

E tu (bambino) hai fatto l’adulto e hai detto: riguarda me.

E – te lo ricordi bene, Shinichi. – Hattori (per l’unica volta) era davvero arrabbiato con te. Mentre il cappello scivolava a terra; mentre la bocca (era un sorriso) restava senza parole; mente (lo vedevi) Hattori ti guardava e ti guardava e – lo sapevi – a quello che avevi detto non ci voleva credere.

Hattori era arrabbiato, quella sera.

Perché tu (lo sai, Shinichi) gli avevi fatto male. Perché tu (un bambino) di lui non ti fidavi. Perché Hattori a te si era affezionato tanto (troppo) e tu, dentro, la sentivi, la paura che pulsava e pulsava e ti urlava: mandalo via. Perché Hattori (che a te si era affezionato) in quel gioco (grande e brutto e pericoloso) non c’entrava.

Ma Hattori (cocciuto) non ti aveva ascoltato.

E quella sera (maledetta) con te c’era venuto; anche se gli avevi fatto male e gli avevi urlato: vattene. Perché Hattori (che, lo sapevi, dentro, aveva male) aveva scrollato le spalle e sorriso (deluso) e ti avevo detto: sei il mio migliore amico.

Hattori (quella notte vecchia e dannata) era stato ferito.

E tu – lo rivivi, vero Shinichi? – hai urlato: ie.

Perché Hattori (che ride) non c’entrava, con quel guaio. Perché Hattori (che arrabbiato non lo era più) ti guardava e sorrideva e diceva: hai visto, Kudo? Ce l’abbiamo fatta.

Ma tu – fa male, vero Shinichi? – di farcela e di aver vinto non ti interessava. Perché Hattori sorrideva ( e no, quel sorriso proprio non ti piaceva) e (cocciuto) ripeteva: adesso tornerai grande. Sarà bello, Kudo. Bello.

E tu (bambino) ripetevi: sì, bello. Mentre la voce ruzzolava; mentre la gola ti soffocava; mentre la mano stringeva e scivolava e dentro (per la prima volta. Da tanto) ti ripetevi solo: non piangere. Perché Hattori è cocciuto (lo conosci, Shinichi); Hattori è cocciuto e ha tanti progetti (illusioni) e tu (davvero) hai capito che ce lo volevi, con te, ad indagare. Ce lo volevi con te, e basta.

Hattori, quella notte, è stato ferito. Perché (cocciuto) con te ci era voluto andare (anche se lo avevi cacciato). E il suo cuore, adesso, non ce la fa più.

E ad Hattori (che – lo sai, Shinichi – è cocciuto) sono rimaste le illusioni e tanti rimpianti. Ma quando tu (arrabbiato) gli chiedi (ancora): ne valeva la pena? Hattori alza le spalle e sorride e (stanco) ti allunga la mano.

E (cocciuto) ripete (e l’accento ride): sei il mio migliore amico, Kudo.

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“Ehi, Hattori.

A te…non è mai capitato… di uccidere qualcuno?”

“Ie. Perché?”

“A me sì”

“Chi?”

“Un amico. Il migliore”

Note linguistico-culturali

  1. Watashi wa Shinichi Kudo desu: mi chiamo Shinichi Kudo.
  2. Engawa: veranda esterna di legno, coperta da un tetto spiovente che solitamente da sul giardino e corre attorno alla casa. Può essere chiusa da pesanti porte di legno o lasciata aperta, e costituisce l’ingresso principale per i visitatori, che sono tenuti a togliersi le scarpe sul gradino di pietra prospiciente.
  3. Kayaributa: zampirone giapponese usato soprattutto in estate.
  4. Sumiyoshi: ultima festa estiva del calendario celebrativo di Osaka, si svolge all’omonimo tempio fra la fine di Luglio e i primi di Agosto.
  5. Acacian: bambino.
  6. Okini: grazie nel dialetto di Osaka.
  7. Nani?: cosa?
  8.  Hai: sì.
  9. Kotatsu: tavola di legno con stufetta incorporata ricoperta da un futon, mobile invernale tradizionale giapponese.
  10. Osakaben: letteralmente, dialetto di Osaka. È una delle varie parlate diffuse nella regione del Kansai, caratterizzata da un tono musicale e scanzonato, con un accento e alcune inflessioni grammaticali diverse da quelle del giapponese standardizzato.
  11.  La festa cui si fa riferimento nel negativo 5 è quella di Tanabata matsuri o festa delle stelle, celebrata il 7 Luglio, in cui è uso appendere i propri desideri, in formato poetico, ad alcuni rami di bambù con funzione benaugurante.
  12. Aho no Kudo: stupido Kudo. Nel dialetto di Osaka a baka si sostituisce aho.
  13. Domo: grazie, in modo abbreviato e colloquiale.
  14.  Ie: no.
  15. Omedetoo: congratulazioni.
  16. Akatonbo: letteralmente Libellule rosse, è una ninna nanna giapponese.
  17. Komori uta: ninna nanna.
  18. Okeari, Kudo: bentornato, Kudo.
[Concludendo]

Dunque.

La prima fan fiction che scrivo, in questo fandom. E la lascio incompiuta, in un certo senso. Perché, io per prima, so che non si capisce esattamente se il trapianto necessario a Heiji avverrà o meno o se (come dice Shinichi) morirà.

Ma ho voluto così; ognuno è libero di leggere soprattutto le ultime battute come maggiormente gli aggrada: realtà, ricordo, illusione, paura, realtà traslata (o metaforica, che dir si voglia).

In definitiva, nello scrivere questa fanficion, mi sono accorta che non mi interessava la conclusione in sé, ma il processo per arrivarci. Mi interessavano (stimolavano) le situazioni che potevano crearsi, i dialoghi che Shinichi e Heiji potevano fare in ospedale, in attesa del trapianto, e i collegamenti retrospettivi che avrebbero potuto creare.

Adoro Heiji e Shinichi; e li adoro in coppia. Credo (temo) che il loro rapporto sia uno dei più belli, complessi e sfaccettati in cui finora mi sia imbattuta in un anime/manga.

Mi sono divertita a invertite le parti, in un certo qual modo. Di solito, è Shinichi il pessimista, quello rassegnato (non in senso assoluto, sia chiaro); mentre Heiji ha dalla sua una carica di entusiasmo e vitalità splendida. Qui, invece, mi sono chiesta: e se per una volta fosse Heiji a non confidare più? In definitiva, è lui quello disteso in un letto d’ospedale; è lui il nome in una lista di mille altri. Penso che in un simile contesto Shinichi sarebbe disposto ad accantonare la logica e la razionalità per il solo intento di poterlo rasserenare almeno un po’.

Nove quadretti, in tutto. Nove rimpianti o ricordi o testamenti che Heiji ha o vorrebbe lasciare. Nove piccoli spaccati senza alcuna pretesa del suo rapporto complicato con Shinichi Kudo. E sulla sua ferma decisione di essere, comunque, sempre dalla sua parte, al suo fianco.

Senza pretese; alla vostra gentilezza.

 
Autore: Avalon9
Titolo: Persona
Genere: Introspettivo, Malinconico
Avvertimenti: one shot
Personaggi/Pairing: Zero/Lelouch vi Britannia
Rating: Arancione
Note dell'Autore: è difficile, ne sono consapevole io per prima. Confusa. Molto confusa. Ma dato il background che ho scelto, una certa disarticolazione l’ho ritenuta possibile. Gli ultimi istanti di vita di Lelouch, la sua mente nei pochi secondi che intercorrono da quando Suzaku lo trafigge a quando rovina in fondo alla scalinata. La Nemesi in un certo senso e l’altra metà della mela dall’altro. Non ho mai pensato a Suzaku come Zero. Zero è Lelouch. E basta. E, probabilmente in una forma malsana, sono persuasa che Lelouch abbia rivisto se stesso dietro alla maschera di Zero, e non Suzaku. O meglio: non solo Suzaku.
Il titolo infine: persona viene dal latino e significa sia “maschera” sia “persona”. Da qui l’idea: Zero e Lelouch non sono la stessa persona, ma due persone in un medesimo corpo. Non è tanto una ripresa della devianza psichica della duplice personalità quanto piuttosto la mia visione del rapporto fra Zero e Lelouch: entrambi hanno molto dell’altro, ma non sono identici. Zero è la sfrontatezza, la mancanza di freni, l’astuzia esasperata. Zero è lo stratega. Lelouch è il fratello maggiore, la sofferenza soffocata, l’ideale che non si vuole abbandonare. Lelouch è una specie di iperuranio. Assieme. Assieme sono un qualcosa di troppo complesso e indefinito. Sono loro. E quando muore Lelouch muore Zero. E mentre Zero vive vive Lelouch. Non sono uguali, ma non sono scindibili.


                                                                          PERSONA
                         Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero.
                                                                                                     Oscar Wild


Te lo ricordi il tuo viso, Lelouch?
É difficile, il tuo viso. É il sorriso di un fratello, la rabbia di un bambino, l’astuzia dello stratega. É difficile il tuo viso Lelouch. Come le relazioni a palazzo, fra i ricordi che il tempo sbiadiva e ti lasciava addosso quella sensazione di perduto che non se ne voleva andare. Che non poteva mai andare via.
Te lo ricordi il tuo viso, Lelouch? Te lo ricordi in riflessi troppo perfetti per non essere distorti; fra le ombre di monitor troppo studiati, dentro gli occhi inesistenti di Nunnally. Lo ricordi. E lo ritrovi dentro pensieri istinti lampi che baluginano confusi.
Il tuo viso.
É difficile il tuo viso, Lelouch.
É difficile anche adesso, con quel sorriso bastardo che hai scoperto di amare. Mentre sollevi una mano e strisce di sangue ti disegnano il profilo. Te lo senti addosso, quel sangue. Te lo senti nella gola risalire col respiro, scivolare sul mento ad ogni colpo di tosse ad ogni parola soffocata per in quella commedia nera che hai creato.
Ti piace il nero, Lelouch. Ti è sempre piaciuto.
E ami quel volto nero che ti guarda senza espressione. Rimpiangi la perfezione di un’indifferenza che faceva tremare, la dolcezza di una concessione che non occorreva esternare.
Amavi il nero, Lelouch; e amavi il tuo viso nero. Di quell’oscurità che hai creato, anelato, protetto. Agognato. Hai aspettato; così tanto. Il tuo viso dentro i tuoi occhi. Il tuo viso davanti a te: vivo. E non ha occhi che ti osservano; non ha lacrime da versare o sorrisi sghembi che sanno raccontare.
Il tuo viso. Il viso di Zero.
Ti sta davanti in ombre cieche e conosciute, così conosciute che hai paura di ritrovare, che desideri solo ricordare. E mentre pieghi a fatica la testa; mentre sorridi e ti domandi quando hai scoperto che sapevi sorridere in quel modo, le labbra arricciate e appena sollevate. Mentre annaspi per guardarti ancora, per guardare Zero, rivedi tante risate, risenti vuoti sorrisi. E ti ritrovi a pregare di non avere più bocca per urlare; di non aver più labbra per amare. Ti ritrovi a pregare di risentire metallo contro sussurri urla singhiozzi che non devi lasciar scoprire, che possono solo morire.
Ti ritrovi a pregare.
Mentre ascolti il respiro sempre più distante, l’affanno sempre più pesante. Riecheggiare dentro la maschera che portavi. Risuonare rimbombare ripetere. Ripetere nulla che abbia valore. Ma per te. Per te: è la risonanza di un viso spiato cambiare, di contorni visti mutare, crescere, perfezionare.
Per te.
Dentro di te.
Dentro di lui.
Zero.
Te lo ricordi il suo viso Lelouch? Te lo ricordi dietro a specchi che si andavano disgregando, in fondo a riflessi che morivano dentro rimpianto.
Te lo ricordi il suo viso Lelouch, nella pelle scivolosa e negli occhi invasati. Te lo ricordi investirti simile a vento, annichilirti di vuoto agognato. Riempirti. Averti. Bruciarti.
Scivolando nelle lusinghe di sogni inespressi; serpeggiando fra aspirazioni e fobie soffocate in lacrime lasciate seccare contro cuscini di bambini morti in vite abbandonate.
Te lo ricordi.
Lo vedi.
Lo senti.
Nel baratro aperto che ti sta inghiottendo. Nel baratro che è la tua maschera, il tuo viso. Nel baratro che sei tu, dentro di te, in fondo a quegli occhi che non esistono e tu ti senti addosso. Perchè ti senti fissare. Mentre stringi gli occhi e respiri e sorridi.
Gli occhi di Zero.
Occhi vuoti senza taglio, senza disegno; occhi pieni di rabbia e sentimento. Gli occhi di Zero. I tuoi occhi dentro un viso diverso; i tuoi occhi su un volto che non riesci a lasciare, su un’espressione che hai imparato ad amare. Mentre l’odio diventa soddisfazione.
Lo vedi Lelouch? Nel tuo viso. Nel tuo viso che ti fissa senza indugiare, nella sicurezza che puoi solo accettare. Lo vedi Lelouch quell’abisso che non ha espressione aprirsi in un abbraccio di bambino perduto?
E mentre ti lasci guardare.
Mentre ti guardi dentro un riflesso che riconosci, che senti essere tuo, solo tuo. Mentre tutto è silenzio di pochi secondi sorridi bastardo di quel viso che non ha volto ed è tuo. Solo tuo.
Sorridi della maschera lucida che ti è davanti. Mentre ricordi una libertà pericolosa scenderti in corpo, inebriarti la testa, quando la indossasti per la prima volta.
La tua maschera. Dicevi, e dentro ridevi di quell’idea un po’ sciocca un po’ infantile che ti era balenata quasi per caso.
Una delle tante, ripetevi. Una fra mille, ti illudevi. Di cambiare, camuffare, ingannare tutti, compreso te stesso. É l’unica regola appuntavi. E intanto alla maschera seguivano azioni; intanto a parole seguivano folli determinazioni. E ogni volta era più difficile strapparsela dal viso; ogni volta ti sembrava di rifiutare un sorriso.
E adesso ti guarda.
Ti guarda e ti sussurra: vivrai.
E mentre osservi il cielo che si va illuminando; mentre ascolti un’eco di un nome che è tuo, che è anche e solo tuo; mentre riavverti l’abbraccio di una sorella dovuta lasciare: Mentre aspetti in quell’istanti, il freddo che risale nelle ossa alzi la testa e ti osservi. E nel riflesso della maschera ti vedi e sai che sei lassù, accanto al trono da cui sei precipitato. Sei lassù, la spada sporca del tuo sangue che si alza; sei lassù, col respiro pieno e un cuore che ancora batte.
Sei lassù.
Osservi il cielo; e osservi te.
Il tuo viso.
Il tuo viso nella maschera.
Il tuo viso che è la maschera.
E sorridi bastardo. Perché vedi con altri occhi; perché respiri un altro respiro. E allora. Allora lo sai davvero che Zero sorride con te. Che Zero ride dentro di te.
E mentre chiudi gli occhi per la troppa luce; mentre ricordi rivedi e rivivi anni trascorsi lasciati fuggire; mentre ascolti voci ormai confuse di riaprire gli occhi su mondo che hai dimenticato, su quel mondo che hai sempre immaginato.

Te lo ricordi il tuo viso, Lelouch.
Nero come la determinazione.
Nero come una maschera che risplende nel sole.
Nero come il riflesso della tua volontà.
Lo conosci il tuo viso, Lelouch.
Dietro un vetro che non lascia riflesso.
E sorridi.



GIUDIZIO

1° Classificato: Avalon9 con Persona (44 punti su 45)

Grammatica e Lessico: 9/10.
Ho trovato molto particolare ed estremamente interessante la scelta grammaticale e stilistica effettuata in questa fanfiction. L’idea di diversi concetti ammassati alla rinfusa, senza una virgola a separarli, come in questa frase, per esempio: […]contro sussurri urla singhiozzi […], rende perfettamente la confusione e la frammentazione dei pensieri nella mente di un uomo che sta vivendo per gli ultimi istanti. L’ho apprezzato molto, in quanto si fonde perfettamente con il contenuto della storia, senza peccare di gravi errori di grammatica.
Tuttavia, ci sono alcune sviste, errori di battitura, come un i che doveva essere un di (pregare i risentire), o un scoperti che doveva essere scoperto (hai scoperti che sapevi sorridere in quel modo) e, infine, una frase in cui, probabilmente, manca una parola: ad ogni parola soffocata per in quella commedia nera che hai creato. Ammetto di non aver compreso se fosse un effetto voluto, ma, in tal caso, per sottolineare ciò, forse sarebbe stato meglio scrivere soffocata per- in quella…
Nonostante ciò, essendo, per l’appunto, sviste, ti ho penalizzato di pochissimo.
Ah, è Nunnally, non Nannully. 

Attinenza alla Consegna: 10/10
Ottimo lavoro, veramente, ottimo. Sai, il rapporto tra Lelouch e Zero era tra i pochi su cui non avessi granchè riflettuto, e la tua storia mi ha donato l’opportunità di vederlo da un punto di vista non poco interessante: il binomio tra Zero e Lelouch come parti scisse di una stessa persona, che insieme sorridono e ridono, ma al contempo opposti: il sorriso di un fratello contro l’inespressiva maschera. Non è un concetto semplice da rendere, e mi complimento con te per esserci pienamente riuscita.

IC: 10/10
Anche qui, ho ben poco da criticare, anzi! Tramite l’utilizzo di un momento e di un’analisi complessi, sei riuscita a caratterizzare incredibilmente tanto Lelouch quanto Zero, descrivendoli tramite volti riflessi, e cogliendo l’essenza di entrambi.
Complimenti!

Originalità
: 10/10
Che dire? Il rapporto Zero/Lelouch è tra i più complessi – se non il più complesso in assoluto – della saga e scegliere di analizzarlo all’interno di una scena solitamente vista alla luce del rapporto Lelouch/Suzaku, o Lelouch/Nunnally è un gesto che mi ha colpita.
Penso che, se fossi stata io l’autrice, avrei scelto infiniti altri momenti, ma non quello della morte di Lelouch; forse, è proprio per questo motivo che mi è apparsa decisamente originale come scelta. Per non parlare della luce sotto cui vengono messi Zero e Lelouch.
Brava, brava davvero!

Giudizio Personale
: 5/5
E’ bella, molto; l’ho davvero apprezzata. Per il tema trattato, per il modo con cui è stato trattato, per la scelta simbolica del titolo, per l’introspezione di Lelouch, che amo infinitamente.
Un punto simpatia per la citazione: Wilde era molto più che un genio.

Punteggio totale: 44/45
 
  Autore: Avalon9
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life
Personaggi Principali: Aries Shion; Libra Dohko
Altri Personaggi: Atena, Saga e Aioros come guest star (anche se solo nominate)
Rating: Giallo
In proposito: “Siamo come gli aquiloni”. Lo diceva spesso, Shion, fra le colonne vecchie di Atene; nell’aria umida di Cina. Lo diceva spesso, quando gli anni vissuti erano ancora pochi. Quando Shion aveva diciotto anni, e Dohko conversava con lui. Una conversazione prima della morte di Shion. Alcune parole pensieri preoccupazioni scambiati davanti a un tavolino e agli angoli opposti del mondo. L'ultimo dialogo fra Shion di Aries e Dohko di Libra: il commiato.
Disclaimer: i personaggi sono di Masami Kurumada; la situazione invece la rivendico mia^^
Note: one shot; missin moments
Cose: Shion e Dohko sono straordinariamente difficili, da trattare. Me ne sono accorta solo scrivendo su di loro. O li si ringiovanisce troppo (anche se Dohko è un ragazzino) o li si invecchia troppo. Ho cercato di immaginare cosa possono aver provato in anni di separazione; cosa si aspettavano e cosa desiderassero.
E mi è nata, in contemporanea, la malsana idea che Shion sapesse che avrebbe dovuto morire; per mano di Saga. E che Dohko sapesse e non sapesse assieme (arrivando anche a sbagliare persona).
Sinceramente, non so esattamente cosa dovrebbe essere. Se ne sta un po’ per i fatti suoi e non è diventato proprio quello che avevo in mente all’inizio. Pazienza! Shion e Dohko sono alla loro prima apparizione reale nelle mie fila, e devono fare un po’ di rodaggio. Taaanto rodaggio.


                  AQUILONI


 

“Siamo come gli aquiloni”
Lo diceva spesso, Shion, fra le colonne vecchie di Atene; nell’aria umida di Cina. Lo diceva spesso, quando gli anni vissuti erano ancora pochi. Quando Shion aveva diciotto anni, e Dohko conversava con lui, sotto il sole caldo di Grecia; fra le foreste di bambù o nella neve accecante del Jamir.
“Siamo come gli aquiloni” ripeteva, e Dohko rideva al suo fianco. 

 

“Sei in ritardo.”
Dohko provò un senso di abitudine, mentre scivolava sotto l’architrave del tempio. Gli era mancato quel modo un po’ irritante un po’ puntiglioso che Shion aveva di riprendere tutti alla minima mancanza. Tutti e mai se stesso. Perchè a riprendere lui c’era stato Dohko, un tempo. Quando erano ragazzi vestiti d’oro e di cosmo; quando erano ragazzi e credevano che sarebbero morti.
“Non mi hai dato un orario.”
Shion sorrise sotto la maschera del sacerdote, rialzando il collo anziano. Sorrise, perchè Dohko non era cambiato, in quei due secoli. E si chiese come avesse potuto sopportare la distanza e i lunghi silenzi cui la Dea li ha costretti.
Anissa conosce si rispondeva, quando la malinconia lo coglieva, nelle notti greche che sanno di ginestra e rosmarino.
Anissa sa ripeteva, e lasciava il ricordo delle piane brulle del Jamir per le verdi risaie dello Jiangxi. Tornava alla cascata che riempiva la mente con il suo fragore; ai pomeriggi fra l’erba alta e il fruscio del changshan. C’era tornato tante volte nella memoria, Shion, a Goro-ho, in quei lunghi anni trascorsi sul trono di Grecia. E mentre lui ricostruiva e conservava, Dohko sedeva, le gambe intrecciate, davanti al mormorio della cascata.
Sarebbe stato semplice lasciar libero il cosmo e cercare. Cercare un contatto, una parola, anche un rimprovero. Sarebbe stato semplice, e Shion non ha mai amato le cose semplici. Lo sapevano entrambi: dovevano aspettare.
“Vieni.” I movimenti di Shion erano rigidi, stanchi per gli anni e vecchi ricordi. “Ho fatto preparare. Per due.”
E per un istante il passo malfermo si arrestò; e poi riprese, nel suo andamento un po’ claudicante. Che pensiero sciocco la mia premura notò Shion, mentre lo sguardo scivolava lungo i fianchi aprichi della collina, dalla mole della Tredicesima giù fino alle luci di Rodorio e ancora oltre, ai fuochi sulle mura difensive: il regno della Dea, il loro mondo segreto e inesistente.
“Ho preparato anch’io. Per due.”
Le labbra si piegarono in uno strano sorriso, mentre Dohko continuava a fissare l’acqua eterna della cascata, il suo precipitare. E nei riflessi notturni vedeva la terra di Grecia, risentiva nell’aria bagnata l’odore salino di un mare lontano. E c’era di nuovo il sole caldo sulla pelle nuda, c’era di nuovo il clangore dell’oro ad ogni passo. E c’era Shion, seduto accanto a lui, su gradini bianchi un po’ scrostati un po’ nuovi.
“L’uva di Grecia è dolce, corposa” commentò Shion sovrappensiero, riempiendo le coppe. “Non ti è mai piaciuta”
"A te, invece, il baijiu piaceva.”
Dohko rise e la sua immagine tremolò. E Shion si chiese che suono avesse la voce di Dohko, adesso che era un vecchio; e che aspetto avesse, il compagno di sempre. E si soffermò sui tratti indefiniti del suo viso, sul corpo che ricordava un ragazzo e si era presentato con il passo felpato e sornione di una tigre che stuzzica la preda. E si chiese cosa vedesse Dohko, seduto sotto la grande cascata, fra il vapore umido e le ombre di Cina. Si chiese che aspetto avesse lui, in quel momento: un vecchio o un ragazzo? Forse un bambino, come quando si erano conosciuti nella penombra della pagoda. O forse era l’ariete, fiero e maestoso, come Dohko contorceva in spire voluttuose la coda della tigre che era in quel momento.
Shion si chiese cosa vedesse e se davvero avesse importanza capirlo, in quel momento. E si rispose che, in fondo, poteva gustarsi quella compagnia a lungo aspettata, prima che tutto finisse. Alzò in un brindisi lento la kylix e bevve. La coppa di Dohko non si mosse, ma la mano scivolò alla tazzina e Dohko lo imitò, il baijiu che scorreva caldo nella gola.
“Hai ricostruito il tempio” commentò Dohko, stringendo gli occhi come per definire meglio le immagini tremolanti nell’acqua scura.
“L’ho ricostruito” convenne Shion. “Era il compito che Lei mi aveva affidato. Ma per me è com’era allora. Lo ricordi?”
“Sì.”
Com’era la voce di Dohko, si chiese di nuovo Shion. Era acuta, una volta; e poi era diventata più roca e profonda. Era diventata la voce di un ragazzo che rideva davanti alla paura; la voce di un ragazzo che aveva pianto accanto a lui, su un campo di morti e di rabbia.
Com’era la voce di Dohko, la voce di un vecchio seduto davanti ad una cascata? Shion avrebbe voluto sentirla; avrebbe voluto sapere se era cambiata ancora, forse più vecchia e stanca; forse più simile alla sua. La voce che sentiva, invece, non aveva età: l’espandersi di un suono nell’aria silenziosa di Grecia assieme al ricordo di umido e del tono che dovevi tenere sempre un po’ più alto, quando parlavi vicino alla cascata.
Si versò dell’altro vino dal cratere e indugiò sulle sagome sempre più scure nella notte: il giardino alle pendici della Collina delle Stelle era di nuovo rigoglioso e il profumo intenso di rosmarino e olive maturate al sole risaliva fino al piccolo tempio. Shion alzò lo sguardo: la statua di Atena si intravvedeva contro il cielo notturno, appena rischiarata dalle fiaccole accese sulla terrazza. Inclinò la testa, rilassando meglio le spalle, mentre Dohko al suo fianco tremolò, la luce divenne più intensa e poi si affievolì di nuovo.
“É passato molto tempo davvero” constatò Dohko, intrecciando le mani in grembo. In quei due secoli non aveva mai voluto accorgersi davvero dei cambiamenti avvenuti: la cascata continuava a scrosciare; le costellazioni si avvicendavano in cielo secondo le stagioni; a primavera il riso veniva piantato e il suo corpo si era solo racchiuse su se stesso, come una crisalide. Nella terra di Cina, fra le vette di Goro-ho, tutto era rimasto immobile; e in Grecia molto era mutato. Forse troppo. E le stelle demoniache, Dohko lo aveva percepito, avevano di nuovo iniziato a pulsare nella loro prigione di pietra.
“Molto tempo” sussurrò Shion, sfilandosi i pesanti paramenti sacerdotali cesellati d’oro. Non si era ancora abituato a vederli sulla propria persona e il loro peso, con il trascorrere degli anni, era diventato fisico oltre che spirituale. Ma Dohko non si sarebbe offeso; con Dohko poteva riassaporare quella libertà, recuperare quell’identità cui aveva rinunciato in un inchino davanti ad un cosmo che andava addormentandosi.
“C’erano i Turchi, quando te ne sei andato” ricordò Shion, in un pigro gioco di memoria. “E con loro i rapporti erano difficili, ma non impossibili. Era sufficiente dar loro l’illusione di comandare anche noi.”
La mano vago incerta fra le dolmades, ignorò le sardine affumicate e indugiò con calma studiata su una sarikopitakia. Shion assaporò il rustico di formaggio e miele, e per un istante ebbe l’impressione di avvertire il profumo di xiao-mai e involtini primavera caldi mescolarsi all’aria. Dohko, dall’altro lato del tavolo, ai piedi della cascata, aveva imitato i suoi movimenti.
“Poi ci sono stati i re tedeschi e danesi.” riprese Shion, la voce in un sussurro. “E i rapporti con Asgarðr e Blue Grado si sono intensificati. Speravo. Ma poi...”
Shion socchiuse gli occhi, riavvertendo il moto di inquietudine e delusione che aveva avvertito anni prima: i movimenti per l’indipendenza, il ritorno della monarchia e la guerra mondiale. I contatti con gli alleati del Nord si erano fatti sporadici e complicati, attraverso un’Europa violata e distrutta. Shion si osservò le mani, raggrinzite e callose: non aveva potuto fare nulla. Non c’erano cavalieri d’oro, all’inizi del secolo. L’ultima volta che aveva avvertito un cosmo d’oro brillare era stato nelle lande di Russia, ai tempi di Napoleone. Lo aveva perso giovane, quell’unico cavaliere d’oro e l’armatura del Sagittario aveva aspettato ancora, paziente, fino a pochi mesi prima.
Gli sembrò che il vino caldo gli restasse imprigionato in gola, assieme a un nodo di frustrazione e accettò quasi con sollievo l’abbraccio di cosmo che avvertì, discreto e caloroso, di Dohko. E, di nuovo, Shion si perse nell’illusione che fosse davvero lì con lui, seduto accanto al parapetto.
“Tre anni di guerra civile” riprese infine, seguendo un pensiero che non si voleva esaurire. “I governi anticomunisti e i colpi di stato, la dittatura militare. Hanno proibito Sofocle, Euripide, Eschilo, Aristofane lo sai? E anche la zeta.” Shion strinse forte il pugno e Dohko annuì grave, il dou li seguì il movimento a coprire gli occhi vivi sul viso rugoso.
“Oggi è intervenuto l’esercito, al Politecnico” aggiunse senza un vero motivo. E Dohko avvertì il significato nascosto dietro quelle parole, dietro quell’elenco di fatti storici in apparenza fine a se stesso. L’acqua di Cina continuava a scorrere, imperturbabile, ma qualcosa stava mutando, e, presto, anche la cascata avrebbe visto, forse, un nuovo dragone invertirne il flusso impetuoso, alzandosi al cielo. E la terra sacra del Santuario aveva già accolto fra le sue braccia antiche la Dea rinata.
Il baijiu in certi momenti è utile pensò Dohko, portando la tazzina alle labbra e osservando con apparente casualità l’alone violaceo con cui conversava. Shion non aveva volto, ma anche da quell’amalgama di luce informe si poteva avvertire la dignità e la stanchezza che emanava. Per due secoli si erano imposti di ignorarsi, ognuno dedito ad assolvere il compito che Lei aveva loro affidato nell’ultimo alito, attraverso il corpo sempre più freddo di una bambina.
Sasha.
Due secoli; e adesso tutto stava per ricominciare. E se Dohko avrebbe potuto scendere di nuovo in battaglia, grazie a quel segreto che custodiva, Shion sarebbe rimasto al fianco della dea bambina come Hakurei prima di lui, fermo e maestoso come l’Ariete. E forse. Forse questa volta, sarà diverso.
E la bambina che riposava al Tempio, i grandi occhi sfumati d’azzurro, avrebbe vissuto.
“Qui, però, non è cambiato nulla” constatò Dohko, e non seppe se ne fu sollevato o spaventato.
“Qualcosa è cambiato anche qui” lo corresse Shion con un sorriso assieme amaro e ironico. “Io sono invecchiato, e inizio ad essere stanco, amico mio.”
Per la prima volta in quella serata irreale, sospesa nel tempo e nello spazio, Dohko si concesse di soffermarsi sulla luminescenza che gli sedeva di fronte. C’era un misto di rassegnazione e accettazione nel cosmo di Shion, una quieta indulgenza in pensieri ed emozioni che, a tratti, vibravano quasi contrastanti, la traccia di una qualche decisione – o forse di una consapevolezza – soppesata a lungo, conquistata fra notti insonni sotto il cielo e nel silenzio di riflessioni e ricordi, nel peso di un ruolo accolto con un inchino.
Qualcosa è cambiato si ripeté Dohko, e il riflesso nella tazzina gli restituì un guizzo di pelle violacea vecchia e raggrinzita; le rughe profonde che solcavano il viso e la pelle gonfia sotto gli occhi, le guance cadenti ai lati di una bocca secca. Il baijiu tremolò nella mano ossuta, e Dohko sorrise di se stesso, di quel corpo che aveva accettato il trascorrere del tempo con indifferenza, raggrinzendo e mutando.
Cos’era rimasto, del cavaliere di Libra? Forse solo un pallido ricordo e un cappello di paglia grigio e strappato; forse solo ossa stanche e fragili che si muovevano lente con il sostegno di un bastone. Si lisciò i baffi in un gesto distratto: la memoria, a volte, è traditrice ed erano state troppe le cose che Dohko aveva visto nella sua lunga vita per poterle ricordare tutte.
Ai piedi della grande cascata, nel silenzio raccolto ed innaturale della prima notte, di fronte al baluginio di Shion com’era un tempo – come io voglio ricordare che fosse – Dohko avvertì per la prima volta il peso reale degli anni trascorsi, assieme ad un’intima malinconia.
Qualcosa è cambiato scandì lentamente nel pensiero, socchiudendo gli occhi. Nell’alone violaceo del cosmo di Shion scorgeva le sagome scure dei templi oltre il parapetto.
I templi. Restaurati.
Vuoti.
In attesa si corresse con un sospiro di cui si sorprese. E Shion taceva, il volto stanco e solcato da rughe appoggiato alla mano. Seguiva il medesimo pensiero di Dohko, la stessa malinconica ovvia e fastidiosa consapevolezza che stava prendendo forma concreta fra loro, nei loro pensieri.
I templi erano in attesa. E presto, molto presto, l’oro di nuovi cosmi li avrebbe pervasi. Cosmi freschi di forze e di determinazione; cosmi diversi, estranei e sconosciuti, timidi al cospetto del Sacerdote e infuocati in battaglia. Cosmi diversi da quelli dei compagni di due secoli prima, da scoprire e veder crescere.
“Una nuova generazione” sussurrò Dohko, e quelle parole gli raschiarono la lingua, sospese fra amarezza e speranza: occhi estranei a fissarti sotto elmi conosciuti; voci espandersi fra le colonne fino a sovrapporsi a echi udibili solo nella memoria; ricordi e condivisioni ormai dimenticate e lasciate cadere, abbandonate.
“Una nuova generazione, sì” e la testa di Shion indugiò in un movimento lungo, forse stanco.
Dohko intrecciò le mani: dodici cavalieri e Shion sul trono di Grecia, al fianco di una bambina da proteggere e custodire.
Sasha.
Rise fra sè, nel rombo della cascata. Non Sasha: Atena. Atena alla testa dei suoi cavalieri; Atena dagli occhi azzurri e dalla determinazione inflessibile. Atena dal sorriso di sole e dalla mente acuta. Atena. Atena. Atena.
Atena; non Sasha. Sasha è morta. Molti anni fa.
Atena. Come allora; come sempre. Di nuovo.
“Dovrai guidarli, Dohko. Dovrai guidarli; e confortarli”
“Con il tuo aiuto, Shion”
“Da solo, Dohko. Sarai solo”
E le parole si spensero, nel vento umido che si diffondeva nella cascata, giù fra l’erba troppo alta, verso un villaggio lontano fra i picchi rocciosi. Le parole si spensero, mentre l’amalgama di luce scuoteva il capo, in un gesto tanto vago quanto inevitabile. E Dohko sentì qualcosa rompersi. Sentì di aver perso qualcosa, qualcosa di importante, prima ancora di capire cosa esattamente fosse. E Shion muoveva lento la testa, il sorriso pallido fra le rughe, la pacatezza di un inevitabile accettato con tranquilla rassegnazione.
Sarai. Solo. Dohko.
“Da solo.”
“Sì” soffiò Shion, mentre si stringeva nella veste sacerdotale, forse per fingere indifferenza forse per nascondere disappunto. “Solo.”
E Dohko capì: capì che quella cena, consumata assieme e lontani, sarebbe stata l’ultima; capì che di Shion non avrebbe mai visto altro che il riflesso del suo ricordo nelle sfumature d’oro e viola di un cosmo che sedeva di fronte a lui. Capì che Shion sapeva e che non avrebbe fatto nulla per cambiare quello che le stelle gli avevano raccontato. Perchè dovevano esser state le stelle a raccontare a Shion qualcosa che era un addio.
“Sai come accadrà?” chiese in un soffio, o forse in un singhiozzo.
“Lo so. L’ho...visto.”
Shion socchiuse gli occhi e oltre il cosmo di Dohko immaginò un altro cosmo inquieto e disperato che si avvicinava. E nelle ombre del tempietto gli balenò, lucida, la visione, come quella notte di mesi prima, sotto le stelle dell’ariete. E nelle ombre altre ombre, immagini iridescenti e sfuggenti di parole rabbia rimorso orgoglio cosmi destino volontà rassegnazione rimpianto. Nelle ombre il viso delinearsi nitido, il cosmo brillare in una mano vista crescere, lacrime su un sorriso che sarà di decisione.
Perchè lui sceglierà la vita; perchè lui sceglierà di soffrire per raggiungere un’illusione. Perchè le stelle, per lui, hanno tracciato la strada più difficile, nei labirinti della mente e della volontà, nei trabocchetti della coscienza.
L’ho visto, si ripetè Shion e scivolò col pensiero all’elmo alato, alla tunica scura rifinita d’oro e di porpora; scivolò su membra nervose e tese, troppo giovani e troppo conosciute. Scivolò sugli occhi di Atena incastonati nei suoi. E la mano si mosse nell’aria, disperdendo come fumo una bolla di cosmo pronta a investirlo.
Sarà lì, prima o dopo. Su quell’altura, sotto quel cielo lontano e complesso. Sarà lì, fra gli echi del mito e del tempo, nel profumo di olive maturate al sole e di ginestra. Sarà lì, e Shion vedrà il cielo sotto l’architrave del prostilio nero e rosso e d’oro e azzurro. E negli occhi vuoti resterà il riflesso del sorriso azzurro di Atena.
“Un sicario?” osò chiedere Dohko, rigirando le bacchette nelle dita ossute. E il pensiero faceva male e la distanza era impotenza e la volontà di Anissa una costrizione mai prima pesata così tanto.
“Un cavaliere.”
E Dohko strinse i denti e le mani ossute furono polvere nella mente, fu il corpo sciogliersi nel fluire eterno della cascata, fu il respiro spezzato nella gola al ricordo di vecchi compagni e vecchi tradimenti di fratelli che si uccisero fra loro.
“L’hai cresciuto. Puoi fermarlo” suggerì, e dopo secoli si riscoprì infantile e ingenuo. Dopo secoli, riassaporò una testardaggine giovanile e la caparbietà di un’età lontana. E, seduto ai piedi della cascata, nei primi freddi di Cina, Dohko si convinse che, per l’ultima volta, poteva tornare a parlare come un ragazzo, come il Cavaliere di Libra di due secoli prima. Con Shion. Per convincere Shion.
“Sarebbe ingenuo pensarlo.”
“Atla potrebbe...”
“Atla è morto. Una settimana fa; assassinato.”
“Assassinato” ripetè Dohko e, lucido, nella mente si formò la consapevolezza, la ineluttabile certezza che, di nuovo, Shion lo aveva escluso. Di nuovo, Shion lo aveva a modo suo protetto e si stava comportando da egoista. Perchè solo un egoista, e Shion lo era, può gettarti addosso un’eredità di comando con il sorriso rilassato e tranquillo che Dohko riusciva a vedergli sul viso rugoso e grigio, anche nei baluginii del cosmo.
Shion è egoista, Dohko lo ha sempre saputo; e di quello che prova, dell’impotenza e della frustrazione che gli cresceranno dentro non se ne cura.
“Un successore” e la parola bruciò sulla lingua, mentre Dohko avvertiva la fretta e lo volontà di conoscere i pensieri più intimi e segreti di Shion. “Un successore: devi sceglierlo. In fretta. Domani. Adesso.”
“L’ho scelto” assicurò Shion, ma nel tono apatico c’era indifferenza. “Si è scelto, per la precisione.”
“Si è scelto? Ma cosa significa...” scegliersi avrebbe voluto chiedergli Dohko.
Cosa significa scegliersi? Avrebbe voluto sapere, ma la domanda si esaurì in un respiro più profondo, assieme all’intuizione di uno svolgersi di eventi che Dohko sfiorò per un istante, sotto le stelle traslucide di Grecia. Non chiese nulla Dohko e seppe che il suo silenzio era assenso; seppe che Shion sapeva e vedeva e conosceva il viso e il nome di chi aveva osato troppo e che non avrebbe fatto nulla. E, per un istante, credette di vedere qualcosa di simile all’orgoglio e alla sicurezza nel brillio del cosmo di Shion, mentre pensava a quell’uomo.
“Ricordi gli aquiloni, Dohko?”
La voce di Shion era pacata nel silenzio della notte, come una nenia o una preghiera; come lo stormio del vento nella steppa e fra le gole di granito; come il mormorio dell’acqua che si allontana dalla grande cascata di Cina. E quel suono, quel baluginio indifferente di cosmo fece più a male a Dohko di un colpo segreto, di un cosmo esploso.
“Li ricordo” biascicò fra rabbia e confusione. “Ma cosa c’entrano, adesso, gli aquiloni?”
“Quando ti venivo a trovare, durante l’addestramento, li abbiamo fatti volare spesso. E salivano in alto; molto in alto. Ti ricordi? Il mio restava sempre un po’ più in basso del tuo. Sempre un po’ più in basso.”
“Scherzi del vento” chiosò Dohko, stringendo forte le mani e socchiudendo gli occhi. “Fei Lian è da sempre capriccioso.”
Shion sorrise, gustandosi alcune olive in salamoia e immaginando nel riflesso verde del cosmo il disappunto di Dohko. Presagio avrebbe voluto rispondergli, ma sapeva che era superfluo. Shion sapeva che Dohko aveva compreso, e stava solo fingendo di sminuire le sue parole.
“Sei un shèng.”
“Lo so” sussurrò Dohko. “E sono impotente: tu vuoi morire.”
“Io devo morire. É diverso.”
Dohko respirò a fondo e a Shion sembrò di percepire l’odore di tabacco ed erbe secche che si disperdevano in placide volute di fumo mescolarsi all’acqua e al muschio della cascata di Cina. Erano trascorsi due secoli, e alla fine succedeva: il Polisemantor presto avrebbe fatto ritorno, forse proprio in seno al Santuario. E la dea fanciulla, la piccola Aithyia, avrebbe raccolto nel suo seno il compagno avversario per crescere con lui e soffrire del loro distacco.
E Shion doveva morire. Ma se Shion non morisse...
Dohko accarezzò il pensiero: due erano i cavalieri investiti del pieno cosmo, e due ragazzi si possono controllare. E uno era al Santuario e l’altro era lontano, nel mare scuro come vino. Shion doveva morire. Glielo avevano raccontato le stelle.
Ma se Shion non morisse...
E Dohko lo immaginò, il suo cosmo espandersi fino alla neonata costellazione che brillava nel Santuario; espandersi e avvolgere con dolcezza una mente ancora bambina, in bilico fra dedizione e follia. Lo avvertì, o immaginò di avvertire, il suo cosmo di aria insinuarsi fra rocchi e colonne conosciute, risalire la scalinata e...Se Shion non morisse.
“La bilancia è l’equilibrio” lo riscosse Shion senza preavviso, e l’immagine, l’impressione di un pensiero sbagliato naufragò fra i miscugli del cosmo. “E il tuo equilibrio è precario, adesso.”
“Sto per perdere un caro amico, anche se inaffidabile. Concedimelo.”
Shion rise, di quella risata piena e giovane di due secoli prima; rise e gli occhi nel volto vecchio e segnato brillarono di un guizzo adolescente e malizioso, di una consapevolezza che racconta uno scherzo che non si può svelare, non ancora.
“Inaffidabile” ripetè, gustando la parola assieme all’uva dolce. “Sono un ariete. Stai attento: posso ingannare.”
E Dohko ricambiò quel sorriso fatto di cosmo, e avvertì un non detto che non si poteva accennare; avvertì parole gettate nel fuoco perchè diventassero cenere e pungolo costante nella sua mente.
“C’è dell’altro” e non era una domanda.
“Forse” acconsentì Shion, e con il vino tracciò un cerchio sul marmo polveroso del parapetto. Perchè di quello che sarebbe successo dopo aveva solo un ricordo vago e confuso. E nelle tenebre che sanno di ghiaccio e asfodeli ricordava la compagnia di cosmi fanciulli e l’aria precipitare di nuovo nei polmoni e lacrime senza corpo e tempo scandito da fuochi azzurri. Ricordava...O forse illudeva quello che le stelle gli avevano raccontato. Ma parlarne a Dohko sarebbe stato troppo facile e troppo sbagliato: perchè Dohko non doveva sapere; perchè Dohko avrebbe dovuto capire con il tempo, in tredici anni lasciati passare nell’apatia e nell’inganno.
Lui avrebbe fatto quello che credeva giusto, e lo avrebbe fatto con ferocia e misericordia; lo avrebbe fatto con rimorso e decisione. Ma lo avevano deciso le stelle e Atena che sorride nel cielo: per Gemini avevano deciso la lacerazione, per la sua antitesi il rimpianto.
E Shion sorrise al sole che si insinuava oltre le alture, verso l’Eubea e una terra di neve e una terra di riso che non avrebbe più rivisto.
“Sarà presto?” sussurrò Dohko, mentre il riflesso della cascata tingeva d’acqua la pietra e le foglie rosse di un acero.
“Sì. Molto presto.”
E mentre il cosmo di Dohko svaniva nell’alba mattutina; mentre il cosmo di Shion scompariva nell’ombra delle creste rocciose si rividero assieme vestiti di metallo in cosmi ardenti, forse nel passato forse nel futuro, raccogliere petali sotto una pioggia sottile. Si rividero insieme, con le stesse lacrime e la stessa angoscia, giovani e complici di quel non detto che sapevano che avrebbero conosciuto.
E nell’ultimo sbuffo di una notte ormai finita, sorrisero di un saluto che voleva essere un nuovo incontro.

 

“Siamo come gli aquiloni”
Lo diceva spesso, Shion, fra le colonne vecchie di Atene; nell’aria umida di Cina. Lo diceva spesso, quando gli anni vissuti erano ancora pochi. Quando Shion aveva diciotto anni, e Dohko conversava con lui, sotto il sole caldo di Grecia; fra le foreste di bambù o nella neve accecante del Jamir.
"Siamo come gli aquiloni” ripeteva, e Dohko rideva al suo fianco. E di quella libertà legata ad un filo sottile; di quella libertà nelle mani di una dea bambina erano orgogliosi.
E sorrisero nel ritrovarsi su fronti avversi; sorrisero dei cosmi che si scontrarono e dell’inganno costruito senza parole. Sorrisero di tanti, piccoli nuovi aquiloni stretti nelle mani di Atena dagli occhi azzurri.
E Dohko sorrise nelle lacrime scure mentre di Shion restava polvere chiara dispersa nel vento e il sorriso impertinente di un ragazzo inaffidabile. Perchè era di Shion andarsene lasciandogli il compito di guida, senza preavviso. Perchè era di Shion studiare la situazione e gettarti in mano una strategia completa e contorta. Perchè Shion era inaffidabile, e Dohko lo aveva sempre saputo.
“Siamo come aquiloni” ripetè Dohko, e sorrise fra la nostalgia e il vuoto che Shion aveva lasciato: questa volta, Shion aveva raggiunto il cielo per primo.


 

Note conclusive:


 
1) Anissa, traslitterazione bizantina dell’epiteto greco antico anassa, significa signora ed è un epiteto spesso accostato, assieme a potnia, ad Atena e alle divinità guerriere in generale.

2) Il changshan è il tradizionale abito cinese maschile, costituito da pantaloni e una camicia lunga. I termine è nella variante in mandarino.

3) Il baijiu è un tipico liquore chiaro cinese distillato solitamente dal sorgo, dal grano o dal frumento nella Cina del Nord, mentre nella parte meridionale del paese è distillato dal riso. Ad alta gradazione alcolica, il baijiu può essere servito sia caldo sia a temperatura ambiente in piccoli bicchierini di ceramica. 

4) La kylix, spesso indicata in italiano con il nome di coppa, aveva un corpo espanso e poco profondo, con due piccole anse impostate poco sotto l'orlo e quasi orizzontali, sostenuta da un piede in genere con alto stelo ed era usata durante i simposi sia per le bevute sia per le libagioni o il gioco del cottabo.

5) Il cratere è un grande vaso utilizzato per mescolare vino e acqua nel simposio greco. Nel corso del banchetto i crateri venivano posti al centro della stanza e venivano riempiti di vino, a cui veniva aggiunta acqua per diluirlo ed abbassare il contenuto alcolico. Presenta un corpo tondeggiante, con corte anse per il trasporto e una larga imboccatura, ma se ne conoscono numerose varianti. Le forme più antiche presentano forma simile allo skyphos, una coppa per bere, e sono conosciute già in epoca micenea.

6) Le dolmades sono involtini di riso o carne trita avvolti in foglie di vite, in genere servite fredde e accompagnate da yogurt come antipasti o stuzzichini con l’aperitivo o comunque insieme ad un alcolico.

7) I sarikopitakia sono tipici rustici salati ripieni di formaggio e coperti con il miele, tipici della zona di Creta ma probabilmente originari della Turchia e di Costantinopoli. Il loro nome deriva probabilmente da “sariki“, ovvero turbante, a causa della loro forma arrotolata.

8) Il dou li è il nome cinese del tipico cappello di paglia originario del sud-est asiatico, di forma conica e viene fissato mediante una stringa di tessuto che passa sotto il mento, spesso di seta; all'interno è presente un'altra fascia che non lo fa muovere sulla testa. Questo cappello viene usato essenzialmente come protezione dal sole e dalla pioggia, specialmente da chi lavora nei campi di riso.

9) Fei Lian è, nella mitologia cinese, il dio del vento.n cinese del termine saint.

 

11) Polisemantor ovvero colui che comanda su molti (sem-an-tor sarebbe letter. ‘guida, condottiero, colui che dà il segnale’) è uno degli epiteti tradizionali di Ades. In origine è riferito al comando che ha sui morti; nella fanfic si riferisce al comando che ha anche sugli Spectre.

12) Aithyia è un epiteto tradizionale di Atena riferito ad un uccello marino. Nel mito Atena, sotto l’aspetto di una cornacchia del mare, avrebbe preso sotto le ali Cecrope, l’uomo primordiale serpentiforme, per portarlo da Atene a Megara.

 

 
Autore: Avalon9
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale
Personaggi Principali: Shinichi Kudo; Ran Mouri
Altri Personaggi: Heiji Hattori come guest star
Rating: rosso
In proposito: sono anni che Ran aspetta Shinichi; sono anni che Ran aspetta un amico d’infanzia. E, una sera, si accorge che Shinichi non è più un amico, si accorge di essere stanca di aspettare, e di voler essere egoista.
Disclaimer: i personaggi sono di Gosho Aoyama; la situazione invece la rivendico mia^^
Cose: All’inizio doveva concludersi al primo paragrafo, senza apparizione fugace di Heiji per intenderci. Poi ho cambiato idea e sono andata avanti. Finalmente scrivo qualcosa con un po’ di romanticismo come fulcro, e ci ho messo il rating rosso un po’ per sicurezza^^. E la lascio incompiuta. Nel senso che ognuno può immaginare la conclusione che preferisce, felice o tragica. Cavoli! Sembra che io non riesca a scrivere qualcosa di Detective Conan prendendo una decisione definitiva. Urge riflessione!
Dedicata a chi ama la coppia Shinichi/Ran, con una Ran che finalmente si stanca di aspettare il suo detective. L’ambientazione cronologica?...Mmh: i nostri attori hanno circa venticinque anni all’inizio; ventotto alla fine. Sì, decisamente li ho fatti crescere^^ E Shinichi è Shinichi in via definitiva, grazie alla cara Ai e al finalmente creato antidoto e Ran conosce, ormai, la sua ex duplice identità di Conan. Ma l’organizzazione c’è ancora (sono duri a morire, i MIB XD) e Shinichi sta vivendo alla macchia peggio di un latitante.
La cosa più difficile è stato rendere i caratteri di Shinichi e Ran; non so se ci sono riuscita: a voi la sentenza!

  

 

            Solo una notte

 

“Posso darti solo questa notte.”
“Lo so.”

Le parole sono strane, a volte. Ti possono far male e ti possono lasciare con tante domande dentro, nella testa, che rimbombano e si rincorrono.
Le parole possono far male, a volte.
E tu, Ran, delle parole, di quello che si celava dietro alle parole, avevi paura. Tanta paura. Ma avevi imparato che la paura è meglio dell’incertezza; avevi imparato che aver paura per Shinichi era meglio che non sapere nulla di lui.
Avevi imparato, Ran. Ad aspettare telefonate rapide e di ovvietà; avevi imparto a studiare la voce un po’ metallica e troppo distante di Shinichi; avevi imparato a ridere e a preoccuparsi e ad arrabbiarsi con Shinichi.
Avevi imparato che le cose possono cambiare senza che l’apparenza si modifichi. E ti era scoperta donna con paura e sorpresa. E ti era accorta che Shinichi era uomo.
Dentro una stanza piena; dentro l’ennesima indagine che seguivi, gli occhi socchiusi e voci congetture e ipotesi che si rincorrevano; dentro la voglia di andartene e a omicidi e morte e dolore non pensarci. Dentro un’attesa che si dilatava, sospesa fra il quotidiano e il sempre, aveva riscoperto un amico d’infanzia apparso quasi per scherzo.
Shinichi dagli occhi che ammiccano sicuri; Shinichi dal mezzo sorriso un po’ arrogante un po’ infantile. Shinichi che sussurra all’orecchio parole che Ran non vuole sentire, per non sperare di nuovo in un sentimento lasciato fermare. Shinichi che scompare, il respiro irregolare sul viso troppo sudato e pallido, senza risposte e con troppe promesse che andranno infrante.
Shinichi.
E scoprirti a seguire il disegno di labbra carnose sempre conosciute e mai osservate; indugiare su un viso un po’ pallido un po’ provato; chiederti dove sia scomparso il sorriso pieno e un po’ arrogante di un tempo, quando per Shinichi le deduzioni erano un’esibizione e un omaggio che lo inorgogliva. Chiederti il perchè, adesso, di un’espressione sempre sospettosa e di quell’aria di apparente apatia e sapere che fanno male e, tuttavia, sono così belle. Così...
E intuire un fisico diverso, sotto vestiti nuovi e sconosciuti. Vedere un corpo più saldo, un’altezza diversa; vedere in ogni gesto una maturità che non si conosce, non si ricorda. E realizzare che Shinichi non è più un adolescente, ma un uomo. Accorgersi di un fascino differente, non più tenero e innocente. Accorgersi che Shinichi è sensuale. Quando arriccia le labbra sprezzante; quando aggrotta la fronte pensieroso; mentre sbuffa e, le mani in tasca, guarda tutto e non osserva niente.
Shinichi è sensuale.
E scoprirti a fantasticare sull’odore della sua pelle, sulla sensazione delle sue labbra; scoprirti a desiderare le sue braccia attorno al corpo, sul corpo. Nudo. E averne vergogna e averne piacere; e essere gelosa di quella vita che Shinichi trascorre lontano, delle persone incontrare che non hanno volto nome; delle donne...delle donne forse consolate forse abbracciate. Scoprirsi invidiosa di sensazioni agognate e mai provate, per paure e per pudore, dentro un sentimento che cresce col tempo.
E capire che qualcosa è cambiato e non averne paura. Desiderare Shinichi senza vergogna o pudore. Desiderare più di una voce che racconta in una cornetta, senza tempo e senza spazio; desiderare Shinichi perchè è Shinichi, e non un amico un compagno un detective. Desiderare il suo corpo e la sua attenzione, un sorriso diverso e un calore sconosciuto.
E sorridere divertita della sua espressione attraverso lo spiraglio della porta. Sorridere mentre ti lascia entrare in quella casa che conosci troppo bene e sa di un tempo ormai passato, sa di polvere e chiuso. Accettare la tazza calda nelle mani fredde di un inverno di venticinque anni; accettare una conversazione un po’ infantile un po’ imbarazzata, tu sulla poltrona lui sulla scrivania. Come da ragazzi. Quando Shinichi era amico e non uomo; quando Shinichi non era una presenza effimera e sfuggente; quando lo potevi vedere in ogni momento e non dovevi affidarti al tempo e alla sorte.
Come da ragazzi. Quando tu eri ingenua; quando imparavi il rossore al suo sguardo; quando aspettavi ad appuntamenti che non si avveravano; quando piangevi e non potevi nemmeno insultarlo.
E sfiorargli le labbra (carnose e un po’ screpolate) con un dito mentre cerca la voce per protestare, mentre cerca di allontanare la tua mano che scivola sul maglione. Sfiorargli le labbra e toccare quello che hai scoperto di desiderare, mentre la mano accarezza un collo teso e ancora risale, ad un viso visto cambiare, ad un viso sottile con la mascella dura e il naso elegante, con il pizzicorio leggero di una barba appena rasata.
E accostare la guancia alla sua guancia e sentire un profumo che non è solo dopobarba ma è uomo e desiderio come il tuo. E le sue mani, le sue braccia attorno al tuo corpo, nella consapevolezza di un abbraccio che ti vorrebbe allontanare, nella volontà di una distanza che adesso tu vuoi annullare.
Ran.”
Lo senti implorale, la voce un po’ bassa un po’ roca. Lo senti implorare di non costringerlo, di nuovo, a parlare; di non obbligarlo di nuovo a spiegare qualcosa che adesso conosci e ti ha fatto rabbia e ti ha fatto male. Lo senti implorare e soffi un sussurro al suo orecchio, con una malizia nuova che ti diverte. Con la certezza di donna che hai deciso di essere. Soffi parole in un bisbilio indistinto, e le mani insinuarsi in capelli un po’ più corti e sempre ribelli; insinuarsi sotto un maglione per scoprire tremore su un corpo allenato.
Lo senti implorale in un rantolo che sa di singhiozzo, la sua testa che ti preme sulla spalla, la sua fragilità, la sua stanchezza che ti investe. E ti ricordi che per una volta vuoi essere tu l’egoista; per una volta vuoi costringerlo tu. E ti ricordi che Shinichi è Shinichi e non un bambino; ti ricordi che il bambino è sparito negli anni e fra le braccia hai un uomo che ti stringe i fianchi e forse ti vorrebbe amare.
“Sei così pallido” gli sussurri stringendogli il viso fra le mani, seguendo l’espressione di un sorriso un po’ ironico un po’ amaro. Mentre rivedi un viso arrossato e due occhi grandi osservarti dietro lenti fasulle; mentre ricordi un viso infantile sorriderti e rassicurarti. E riscopri la stessa espressione un po’ dolce un po’ abbattuta nelle fossette ai lati delle labbra, nelle piccole rughe espressive.
“Sono solo stanco, Ran.
E mentre gli sollevi i capelli dalla fronte; mentre gli accarezzi la cicatrice nascosta dal sopracciglio; mentre senti le sue gambe stringersi di più al tuo corpo e non lasciarti andare riconosci la verità e la bugia mescolarsi nella smorfia che gli sfugge sul viso.
E gli abbassi le palpebre su occhi che ti implorano di lasciarlo, su occhi che ti chiedono di amarlo e di perdonarlo. Gli abbassi le palpebre e sospiri al suo respiro sulla tua gola, a quel gemito che sa di sollievo e dolore mentre discendi lungo il suo viso. E glielo stringi forte, il viso, e gli stringi forte le spalle mentre lo baci e lo baci e lo baci. Mentre lo senti ricambiare e respirare nel tuo respiro, inseguire il tuo desiderio, quell’attrazione che hai realizzato fissando la pioggia scorrere sul vetro nell’inverno di venticinque anni. Quel bisogno che non hai più ignorato, nel pensiero di una valigia che stava finendo e di una casa di nuovo lasciata ammuffire; nella dolorosa consapevolezza di non ritrovarlo e ancora aspettarlo, senza certezze e promesse.
Ran” ti sussurra, la penombra in una stanza che era di un ragazzo. Ran ti sussurra soffiando sul tuo viso; Ranti sussurra mentre i capelli ti accarezzano il viso e senti la sua voce, la sua bocca, sul tuo collo; Ran ti ripete in un singulto roco, con le mani sul tuo seno, con le mani suoi tuoi fianchi.
“Posso darti solo questa notte.”
E lo baci mentre gli lasci fra le mani un bottone della tua camicia; lo baci mentre ti lasci spogliare, senza rossore e senza timore; lo baci mentre gli sfili il maglione e ti lasci guardare. E riconosci in gesti nuovi la stessa emozione, lo stesso tremore di un desiderio sempre avuto e trattenuto. E lo stringi al tuo corpo nudo quando lo senti esitare, la paura di farti ancora del male; lo stringi e glielo lasci capire il bisogno che hai di sentirti voluta, di sentirti desiderata.
“Domani” ti prova a spiegare, con labbra secche e respiro già roco e a stento controllato. “Domani non ci sarò, quando ti sveglierai.”
“Lo so.”
“E non ci sarà nemmeno Conan, Ran.”
“Lo so.”
E ti compiaci del gemito alle tue gambe attorno ai suoi fianchi; ti compiaci di quel viso che non puoi vedere e non vuole guardarti. E sorridi senza rimorsi e paure al suo respiro sul seno, alle sue mani nei tuoi capelli, alle sue labbra che ti mordono la pelle.
“É solo una notte, Ran.”
E non lo lasci continuare; non lo lasci di nuovo scappare. E mentre lo stringi e lo fai rotolare sul materasso; mentre gli fai ingoiare quel non voglio farti del male; mentre decidi che quel male lo vuoi sentire dentro la carne, dentro nostalgia e paure che puoi controllare; mentre lo provochi e lo senti cadere in una implorazione che sa di desiderio. Allora capisci che quella sola notte saranno tante notti; capisci che ogni volta ci sarà una sola notte, senza pensare che potrebbe essere l’ultima. 

                               ***

“Sei un idiota, Kudo.”
“Lo so.”
“Da quanto...
“Tre anni.”
“E non mi hai detto niente” sospiri, le mani a stropicciarti il viso. Quasi irritato quasi divertito. E dell’offesa e della rabbia e delle parole sulla lingua te ne dimentichi subito, in quel bar di periferia, mentre Kudo guarda dalla finestra, un cappellino ben calato in testa e il bavaro alzato. Te ne dimentichi subito, di rabbia e offese, e sorridi e ridacchi, mentre Kudo ti fissava senza emozione, gli occhi socchiusi.
“Sono felice. Per te.”
Toyama come sta?” ti chiede, mentre nasconde una smorfia nella mano. E tu lo sai che quella smorfia è per le tue parole, per quella approvazione che Kudo non ti chiede e per la richiesta che non vuole farti. É orgoglioso Kudo; lo è sempre stato.
“É Hattori-domo, ora” lo correggi nel ricordo di due bicchieri di sakè sorseggiati di maggio, negli occhi la ricerca di un viso sfuggito fra la folla e di un cenno fugace. Nel ricordo di un rischio giocato per orgoglio. E lo vedi accennare un sorriso che sa di rassegnato; lo vedi stringere la tazzina da caffè e inghiottire un pensiero che ricorda un rimpianto.
Cosa farai adesso Kudo?”

                              ***

“Io non ci sarò.”
Te lo dice di spalle, in quel letto dove ti ha avuta. Te lo dice di spalle, la testa bassa e la voce distante. E tu sorridi di quella sensibilità nascosta, di quella dolcezza travestita da indifferenza. Sorridi di una maschera che hai imparato ad aggirare, che hai scoperto di saper ignorare; sorridi e lo lasci parlare, le spalle nude nella penombra di una candela dimenticata accesa.
“Non ci sarò alle ecografie; non ci sarò per progettare qualcosa; non ci sarò se vorrai stringermi la mano la notte e se starai male per la nausea.” ti sussurra, e in quella voce adulta recuperi i pianti e i capricci di un bambino; recuperi la rabbia e il rammarico di un uomo.
“Non ci sarò nemmeno domani mattina, Ran” ti ricorda con negli occhi la richiesta di non costringerlo a restare; con negli occhi la preghiera di non lasciarlo andare. E ti stringe forte mentre gli accarezzi le spalle, mentre gli accarezzi i capelli e sai che non hai paura e non hai incertezze. Mentre lo baci e ci fai di nuovo l’amore, ancora e ancora come una sola notte. Anche se di notti ce ne sono state tante, dopo.
Anche se di notti strette al suo corpo ne hai vissute tante, in tre anni.
Anche se di notti passate da sola nel letto ne hai perso il conto.
Anche se è sempre una sola notte.
“Vuoi davvero...
“Lo voglio” gli sussurri, un dito sulle labbra per non farlo continuare. Un dito sulle labbra per accarezzare la piega impercettibile di un sorriso che non vorrebbe farti sapere. E gli premi l’orecchio al tuo ventre; e gli accarezzi i capelli e ti fai abbracciare. Perchè hai imparato ad essere egoista con Shinichi; perchè hai imparato che per te Shinichi è uomo. E tu vuoi essere sempre una donna.
Una sola notte; per ogni notte che riuscirà a tornare.

                                ***

“Lo vuole.”
“E tu cosa le hai...?” indaghi, il cellulare stretto all’orecchio e una sigaretta fra le labbra. Mentre Osaka è caos e macchine dalla finestra della centrale di polizia.
“Che non ci sarò.”
Mouri è cresciuta. Davvero.” ridacchi, e ti godi quel mezzo sorriso che immagini gli sta increspando le labbra; ti godi il pensiero di quel lieve imbarazzo nascosto. “Starà bene, vedrai.”
Hattori...
“Ci penserò io, Kudo” lo rassicuri, per quel nome soffiato senza coraggio di chiedere; per quel nome strascicato per orgoglio troppo pagato. “É una promessa. D’accordo? Tu pensa solo a tornare.”
Hai.”

                                ***

                   “É solo una notte, Ran
                “Sarà la nostra notte, Shinichi.”